Com’è che ti chiami?

christopherwalkencolkoonzOh, ‘mbè?

Se non vi scrivo io voi un cazzo, eh?

Begli amici di merda…

😀

Sentite questa, bastardi – anche se non ve la meritate: se volete trattare male qualcuno così, per scherzo, per ridere, per sdrammatizzare, per vivere un pò alla Truck Driver, alla Pulp Fiction, alla i Cesaroni, ma allo stesso tempo per ribadire con chiarezza come stanno le cose, chi porta i pantaloni, chi comanda, insomma chi setta il trend 😀 fate come me, dite alla vostra compagna, al marito, alla figlia, all’amico, al fratello, al collega:

‘Coso… com’è che ti chiami? Dove hai messo l’accendino?’

‘Senti, scusa, ehm… come ti chiami? Hai fatto tu ‘sto casino?’

Esilarante.

C’è anche la versione di sbagliare apposta il nome, tipo: ‘Coso, Alessandro (ma si chiama Vito), mi aiuti per favore?’ oppure quella con grandiosi, grezzi appellativi da bar, tipo: ‘Zio, mi fai un caffè?’, ‘Giovane, la gazza per favore’, ‘Ragazzo, vado a prendere le pizze, tu prepara la tavola.’ ‘Biondo’ è perfetto, anche ‘Capo’. ‘Fratello’ non va bene invece, è troppo figo. Qui si tratta invece di prendere per il culo, smontare un personaggio partendo dal dimenticarsi il suo nome. Mica figaggini.

Un vero e proprio affronto in un tempo come il nostro, non trovate? Dimenticarsi l’identità di qualcuno. Spersonalizzare. Confondere. Dopo tutti gli sbattimenti per mangiare sano, fare sport, evitare lo stress, nutrire l’ego, cibare l’anima, aggiornare Twitter e bla bla bla questo manco si ricorda come mi chiamo… Ecco perchè lo adoro. Adoro le disfunzioni di carattere relazionale e sociale. Sono così cariiine. Come quando incroci qualcuno per strada che ti saluta per nome e tu non sai come si chiama, e sprofonderesti dalla vergogna, una sorta di incontrollabile vergogna relazionale, nel rispondere con finta nonchalance e sorriso poco convinto:

‘Uèèè… bello (anche se è un cesso), come va?’ A quel punto però dovresti fare una domanda di tipo personale, per compensare il fatto che questo ti sta allisciando manco tu fossi che ne so, Fedez o Corona, chiamandoti per nome, sorridendoti, pacche sulla spalla, domande sui figli eccetera, e tu manco sai chi cazzo è! Domanda personale, certo, ma quale, dato che ti è quasi uno sconosciuto? Allora ascolta un cretino, stai sul generico che va sempre bene per tutte le stagioni:

‘Quindi poi tutto a posto con quella storia là?’

(lui di certo sa quale storia, un pò come arrivare a casa e picchiare la moglie senza motivo: lei sa perchè :D)

‘Che storia, la moto distrutta dici?’

(E ‘sti cazzi, sei ricoperto di bende e cerotti, vedi tu…)

‘Ecco, esatto’ Con quella impagabile faccia da schiaffi.

E via, la connessione sociale è riavviata senza traumi, il fatto che non sai come si chiama ‘sto stronzo è pressoché compensato: sei a posto.

Cose così, amici. Magari adesso non vi dicono un cazzo, ma fumatevi un cannone e poi tornare qui a rileggere. C’è da pisciarsi addosso, o sbaglio? E non siamo incontinenti in famiglia. Perlomeno, non ancora… anche se il pannolone ha il suo fascino perverso, dai.

A proposito, non vorremo mica restare indietro anche rispetto al Colorado, all’Uruguay, alle ASL della Toscana? L’erba non solo non fa male, amici, ma fa bene. Io lo dico da quasi trent’anni. All’inizio mi prendevano per malato. Adesso qualcuno che non sia un rasta o uno della buka, dopo le parole di Veronesi e qualche altro illuminato cannaiolo, comincia ad ascoltarmi (e a voler far due tiri, e poi altri due, e poi altri due- che sia maledetto…). Tra qualche anno sta’ a vedere che sarò anch’io un fottuto guru come Steve Jobs o Jovanotti.

Oh cazzo, no.

Come che ti chiami…. Dio, ti prego, scampamene.

Padre sbagliato – Festa di compleanno

MerciBday1-795773Facile definirsi diversi dal branco, alternativi o per usare un termine figo ‘sbagliati’. Uno mangia per due giorni verdura biologica e dice no al wurstel crudo che gli offre la mamma durante il pic nic della domenica all’Idroscalo – dopo l’immancabile insalata di riso, oppure una sera a casa d’un botto spegne la tv, così, perchè ha appena letto su Focus che a tv spenta e musica classica di sottofondo ci sono più possibilità che il proprio partner abbia voglia di fare sesso, e crede di potersi annoverare tranquillo tra i Padri Sbagliati.

Troppo comodo. Mi rendo conto che il bel tenebroso sbagliato fa sempre colpo sulle donne, si staglia dal gregge e brilla di luce propria, e soprattutto in periodi di merda assoluta generale come questo – dove a mantenere un sacrosanto basso profilo e a non lamentarsi si fa la figura del demente o del disonesto – diventa quasi il modello da seguire. Think different. Mica pe’ gnente. Ma poi, come direbbe Elio (delle Storie Tese), se i sassi della Toscana se li portano tutti via poi viene a mancare la Toscana stessa. E quindi: se fossero tutti diversi in giro, tutti alternativi, tutti sbagliati, poi verrebbe a mancare la diversità stessa. E che cazzo…

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Delta Blues a Pisa – Venerdì 15 Aprile dalle 19:30

I ragazzi di Aut Aut ci hanno invitato a presentare il nostro Delta Blues presso il Cantiere Sanbernardo, via Pietro Gori a Pisa, il prossimo Venerdì 15 Aprile dalle ore 19:30- È sempre un piacere visitare la Toscana, sontuosa terra del vino bono, ed è sempre un piacere parlare del nostro libro. Se poi si abbinano i due fattori (vino+parlare), allora le probabilità che la serata sia divertente sono molto alte. Vi aspettiamo.

Qui sotto la recensione di Delta Blues che Aut Aut ha pubblicato qualche tempo fa:

http://www.autautpisa.it/modules/news/article.php?storyid=904

***

Stendiamo sul tavolo una mappa, una dettagliata cartina geografica, precisamente quella del Delta dl Niger, sovrapponiamogli lo spartito di qualche vecchio blues suonato in un altro delta, quello del Mississipi, il blues maledetto dei neri alla Robert Johnson. Poi aggiungiamo Cuore di Tenebra, anzi Cuore di Tenebra mettiamolo al centro della mappa, perché è da questo romanzo che parte tutto, parte l’idea e l’intuizione, partono i primi accordi suonati della cover a venire. A lato, ma non troppo lontano, sistemiamo le avventure di Corto Maltese, soprattutto quelle africane come ad esempio le Etiopiche. Ricopriamo tutto con acqua di fiume sporca, acqua torbida di petrolio e sfruttamento, di sangue e maledizione. Acqua che contiene tutta la brutalità del progresso del capitalismo occidentale. Continua a leggere

LA ‘NDRINA DI VIA MUGGIA

Al Livello 57 eravamo una grande tribù, nel senso antropologico del termine, divisa in vari clan per lo più di origine geografica: Sicilia, Puglia, Alto Adige, Veneto, Lombardia, Piemonte, Toscana e dulcis in fundo, Calabria. Quello calabrese era diventato nel tempo uno dei clan più numerosi all’interno del centro sociale; si sa come operano i calabresi (ma è una teoria che si potrebbe allargare agli italiani e all’essere umano in genere), una volta arrivati i primi e dopo essersi ambientati bene, qui cumpà si mangia si beve si balla e si tromba come ‘nu puerco hanno incoraggiato altri conterranei a stabilirsi in loco. Per inciso: il sottoscritto ha sposato una calabrese, passa le sue vacanze a Crotone da parecchi anni ormai, per cui si sente in diritto di parlare di questa terra e dei suoi abitanti senza avere il timore di essere preso per razzista o filonordista. Per di più mia mamma è di Caltanissetta per cui non sono neppure un pulentun. Non sono né carne, né pesce, sono un ibrido, uno scherzo della geografia latitudinale, sono un po’ come Mary Per Sempre, però un po’ meno Mary…Era incredibile e anche un pò inquietante vedere all’opera questo clan organizzato, sia come bigliettai e bodyguards improvvisati all’ingresso del Livello sia come servizio d’ordine durante le manifestazioni di piazza. Nel primo caso ho visto più di una volta avventori alticci e minacciosi diventare pulcini docili e spennacchiati dopo una chiacchierata chiarificatrice con il clan dei calabresi; “Cumpà ca d’è ca vo? E statt tranquill, non fare innervosire i ragazzi da retr’ ch’è meglio!” “Chisto’cca lo ripassiamo nella malta se un la smette!” “Vedi che i miei compari sono andati a prendere le pale che hanno una buca da scavare!”, frasi del genere, in amicizia, un confronto leale fra intellettuali di un certo calibro. Nel secondo caso devo dire invece che, con mia somma sorpresa, ho visto celerini incazzati, con la bava alla bocca (si diceva che li tenessero in gabbia per qualche giorno prima di una manifestazione), ho visto questi poliziotti, dicevo, indietreggiare e anche di corsa con la coda fra le gambe di fronte a quella masnada di genti del sud assetati di divise azzurre (in molti casi erano presenti anche pugliesi e siciliani lontani parenti di quel Terron Power che fece faville negli anni settanta nei movimenti di sinistra estrema del capoluogo felsineo). Non che la cosa mi piacesse particolarmente, anzi. Però in quegli anni sapere di avere un po’ le spalle coperte in situazioni pericolose mi faceva sentire vigliaccamente più forte, al sicuro. È come la strana sensazione che si prova mentre si guarda un film di serie B dove il cattivo perpetra ingiustizie a go-go e alla fine arriva il buono, grosso e incazzato, e lo gonfia come una ruota di un camion. Non si dovrebbe fare ma si fa, e si è felici, appagati. Chissà se Guccini quando cantava “Trionfi la giustizia proletaria” si riferiva anche a queste situazioni, a eroi a metà fra Bud Spencer e Pietro Micca. Purtroppo però il clan dei calabresi spesso esagerava. Forse cosciente della propria forza e coesione di gruppo, era solito degenerare in azioni che poco avevano a che fare con la giustizia. Ricordo un fatto in particolare. Una domenica mattina, alla fine di un Rave Party, si era tutti ubriachi e stanchi (più stanchi che ubriachi) e ci si apprestava a terminare la festa iniziata la notte prima e chiudere quindi il centro sociale per il riposo domenicale. Chi era seduto dietro il bancone del bar, chi su una panchina e si prendeva il primo sole tiepido del mattino, chi sonnecchiava appoggiato al muro, insomma si era un po’ tutti in quel momento tipico dell’ ancora cinque minuti e poi me ne vado a casa che mi fischiano le orecchie e ci vedo doppio e minchia! Me la dormo tutta, faccio un dritto fino a lunedì, si era a quel punto, dicevo, quando arrivarono tre ragazzoni visibilmente ubriachi e molesti. Cominciarono a importunare una delle bariste dietro il bancone, lanciandole pesanti apprezzamenti. Nel frattempo uno di loro, credendo di non essere visto, allungò una mano dietro il frigobar rubando una bottiglia di vodka ancora sigillata. Non contento e senza un apparente giustificato motivo scagliò un bicchiere di plastica pieno di birra in faccia a Wally, uno dei calabresi. Era chiaro, non era venuti per fraternizzare, ma scegliere un avversario come Wally per attaccar briga fu certo una decisione per nulla ponderata da parte loro. Wally era un catanzarese di un metro e novanta, spalle larghe e forza bruta(e pensare che i calabresi sono pericolosi anche in versione mignon figuriamoci un calabrese gigante). La leggenda narra che una volta, incazzato come una jena con la sua ragazza, ruppe con la sola forza delle mani il lucchetto che teneva chiuso il motorino della sfortunata e lo gettò dentro un bidone dell’immondizia. Non era un cliente facile per il trio dei rompiballe. Lui li guardò tutti e tre negli occhi, con apparente calma si asciugò il viso con un lembo della maglietta, poi tirò un urlo disumano (credo di aver visto l’ugola vibrare fuori dai denti), una sorta di richiamo della foresta. In men che non si dica Rocky, Manona e Quentin (altri tre calabresi di quelli giusti) sbucarono fuori dal nulla. Wally urlò ai compagni qualcosa in dialetto (a me risultò incomprensibile ma credo fosse un breve riassunto sulla situazione venutasi a creare e sul come agire di conseguenza). In un attimo il quartetto di lupi silani si lanciò sul trio di intrusi. Pim  pum pam, calci e pugni, rumore di ossa che si rompono, i tre in vertiginosa fuga. Wally e i suoi dietro. Io e i pochi altri ragazzi del centro rimasti, dietro ai nostri compagni calabresi. Manona e Quentin raggiunsero di nuovo il trio che nel frattempo stava cercando di mettersi in salvo salendo in auto. Niente da fare, Wally saltò a piedi nudi sul cofano della macchina e a suon di calci disintegrò il parabrezza. Allungò un braccio all’interno dell’abitacolo e tirò fuori i due sventurati rifugiati sotto i sedili anteriori. Purtroppo per loro non era finita, solo il terzo che era riuscito a rintanarsi sotto il sedile posteriore fu risparmiato dalla furia ionica. Per alcuni interminabili minuti nessuno riuscì a fermare quella follia, poi alcuni di noi si resero conto che una reazione giustificata si stava trasformando in un linciaggio dai contorni quasi biblici e decidemmo di provare a fermarli. “Ragazzi basta, così li ammazzate!” Fu questa la frase che fece suonare il gong di fine-incontro. Due ragazzi giacevano per terra e si lamentavano, il terzo gridava quasi sottovoce basta basta, nascosto sotto i sedili  dell’auto, ormai semi distrutta. E in tutto questo casino Quentin era pure riuscito a rubarsi l’autoradio e le  casse montate al suo interno. Gli aiutammo a rialzarsi, montarono in macchina senza dire una parola e partirono, presumo in direzione S. Orsola, con andatura storteggiante, gnic-gnic, causa ruote deformate. Ero allibito, sconcertato anche se un po’ mi veniva di ridere. Più avanti avrei capito quanto pericoloso poteva essere avere come compagni di vita e d’avventura dei personaggi del genere, ma questa è un’altra storia. To be continued…

Giardino d’Europa

La tendenza è chiara da alcuni anni, ormai. Almeno una quindicina. Da quando la toscanizzazzione del territorio italico ha avuto una brusca accelerata, noncurante della saggezza di Elio e le Storie Tese così espressa: ‘Se ognuno di noi portasse via un sasso, la Toscana si espanderebbe in tutto il mondo e nessuno potrebbe riconoscere più la Toscana’. Diciamo dal boom di agriturismo e bed & breakfast vari.  Da quando Sting e Tony Blair ci deliziano della loro presenza tra i colli senesi e quelli fiorentini, da quando le vecchie e fatiscenti stazioni termali sono diventate per miracolo SPA (?) da 40 euro all’ingresso. Da quando l’Europa ci ha concesso qualche ‘briciola’ normativa a tampone dei danni subìti per le problematiche  – leggi fregature – di denominazione geografica controllata dei prodotti tipici  (ma comunque ‘parmesaanse kaas’, tradotto formaggio parmigiano, un obbrobrio caseario dal sapore mellifluo lontano anni luce dalla consistenza e dal sapore del vero parmigiano, è sempre in vendita nei supermercati olandesi).

Ormai è evidente. L’Italia è sempre più il Giardino d’Europa. Questo è il nostro destino: intrattenere l’ospite di riguardo straniero con deliziose tartine poggiate su vassoi d’argento, al dolce suono di arpe e violini costruiti da liutai di Cremona, in sontuosi giardini dai fiori variopinti e profumati. Appena dietro, probabilmente, passa una bretella autostradale mal fatta e congestionata di traffico e polveri sottili, ma a quel punto basta inserire timpani e tromboni nel tessuto melodico per coprire il fastidio. Siamo il catering di alta qualità del business europeo. Vero, c’è di peggio, come scrivevo anche su queste schermate tempo fa: pensate alla Polonia, che è la miniera d’Europa. O a Romania o Ucraina, e lascio perdere le categorie merceologiche. Il giardino perlomeno è un bel posto. Ma comunque per gli ex padroni del mondo, i discendenti diretti degli Antichi Romani, belli, abbronzati e ben vestiti, esportatori tenaci e virili della dolce vita felliniana fino a neanche troppo tempo fa, è un bel rospo da ingoiare. Relegati all’intrattenimento.

Eppure non potrebbe essere altrimenti. Non sappiamo gestire la complessità delle cose, è evidente: politica, pubblica amministrazione, traffico, qualità della vita, innovazione, ricerca, istruzione… Più italianità si trova in un settore, peggio le cose sembrano andare. Giratela come volete, società sfaccettata, dal forte senso critico, dalla storia complicata, attaccata alle tradizioni, ma per me significa soprattutto una cosa: meglio lasciar fare agli altri ed occuparci di giardinaggio e prelibatezze culinarie. Alla fine si dice che vale la pena di vivere solo per quelle, no? E allora specializziamoci in antipasti e minuetto in costume d’epoca. Lasciamo tecnologia, ricerca, viabilità, servizi agli altri. Perlomeno noi consumatori saremmo fregati di meno, con ogni probabilità. A me sta bene, a voi no? Non mi interessa se la mia banca è controllata dai francesi o se i sauditi sono interessati all’acquisto dell’enorme area dismessa alle porte di Milano, dove vivo. Mi interessa non sentirmi fregato ogni giorno. Non vedere altro che ingorghi e centri commerciali tutto intorno. I risultati dell’italianità gestionale. No, grazie. La nazionalità delle cose non mi interessa proprio, è la sua sostanza che conta.

Già siamo fortunati ad essere il giardino d’Europa, appunto. Anche se ce la stiamo mettendo tutta per rovinarlo. Il futuro è lì, lo vedo, nitido: tutti con costume da centurione, fiaschio di rosso in mano a fare le foto di fianco al Colosseo. Oppure tanti bei Pulcinella intenti a girare pizze in aria, sotto una pioggia di flash nipponici. E gli immigrati? Be’, lo vogliamo far divertire anche un pò, ‘sto popolo di intrattenitori, con bestie feroci e qualche negretto da sbranare?

Io non me la sento di negarci anche questo.

Consigli per una vita migliore 2

Dettagli. Cura maniacale dei dettagli. Certosinità (neologismo in licenza Creative Commons, utilizzate pure). Come rifare il letto alla perfezione, stirare i calzini, piegare il tovagliolo di carta a triangolo per la cenetta veloce del lunedì sera a casa. Roba italiana. Il mondo ce la invidia – dicono – ma forse perchè non ci convive ogni giorno. Vorrei vederlo, uno di quegli amanti della Toscana inglesi, uomo pacato, istruito, di una certa caratura, ripreso da un gruppo di scatenate mamme italiane: ‘Ma ti sei messo la maglia di lana?’, ‘Hai mangiato abbastanza?’, ‘Non è che così sudi?’, ecc… Tornerebbe nel Kent di filata, Chianti o non Chianti. Cura del dettaglio e attenzione, perizia e metodo sono senza dubbio buone cose, se dosate nella maniera giusta. Qui da noi spesso si esagera. Ecco alcuni consigli per una vita meno controllata e probabilmente più felice, di certo più spensierata. Se è vero che la verità sta sempre nel mezzo e che il buon senso esiste. Ve li elenco a vostro specifico benificio, perchè per me ormai è troppo tardi: la mia battaglia quotidiana contro il pragmatismo nordeuropeo incuneatosi in famiglia ha estremizzato le italianità, sia volontarie che istintive. Ora piego vestitini per bambole in continuazione e controllo la chiusura della porta 3/4 volte a sera, quando va bene. E non ridete. Potrebbe succedere anche a voi, un domani. Italiani che non siete altro.

-non siate così ordinati e precisi nelle file davanti a uno sportello, e così distanti dal bancone quando tocca a quello prima di voi.

Ah no, scusate. Ho preso la lista di consigli sbagliata, evidentemente… per un’altra nazionalità… Ecco sotto quella giusta:

-le equazioni sono uno strumento prettamente matematico, che non si può applicare tout court alle questioni legate al tempo atmosferico e relativo abbigliamento necessario. Cioè: canottiera + polo a  maniche lunghe + giubbotto imbottito non è detto che sia uguale a canottiera + maglioncino di frescolana + giacca di velluto. Ditelo a chi vi rimprovera la scelta del vestiario di oggi, sottolinendo che ieri (o stamattina) eravate più coperti. E in ogni caso questi tentativi di ‘equazione tessile’ non aiuta a evitare i malanni di stagione. Smettiamola di stabilire a priori, fino alla pazzia, che combinazioni di capi indossare per un tipo di microclima. Di preoccuparci se un orecchio rimane scoperto per 15 secondi netti. Il corpo umano è in grado di reggere situazioni di vario tipo, sopravvivere a qualche grado di troppo o in meno rispetto alla tabella della buona mamma italiana. Altrimenti come farebbero le rosse ventenni irlandesi ad andare in discoteca a Dublino in febbraio con vestiti sexy e senza collant, senza morire in coda davanti all’ingresso? Non voglio prenderle a modello (gli anglosassoni sono anglosassoni), ma forse si può essere un pò più rilassati nella scelta del vestiario qui da noi. Un pensiero in meno, un pizzico di avventura in più.

-si possono anche indossare occhiali da sole, o altri accessori, e parlare con telefoni cellulari che non siano il meglio in assoluto sul mercato e l’articolo più costoso del negozio. Funzionano lo stesso, se si perdono in spiaggia o si rompono calpestati da noi stessi non ci si rode il fegato per mesi come invece accade di norma, e inoltre ci si dà un tocco di elegante disinteresse materiale che in questi anni di Yoga, agricoltura biologica e fonti di energia rinnovabile funziona. Provateci. Cheap is the new posh. E vedrete che tra poco ci penserà un brand famoso a rifilarvi ‘sto concetto, a prezzi appena più bassi, ovviamente.

-si è ciò che si mangia, siamo d’accordo. Bisogna mangiare bene, in modo bilanciato, senza esagerazioni, riducendo anzi certi tipi di cibo che fino a ieri – in verità – ci hanno quasi obbligato a mangiare con bombardamenti mediatici e sociali di ogni tipo, come la carne e le proteine e i grassi di origine animale. Ma il vento è cambiato, dicevamo, e un buon italiano sa TUTTO di cibi e cucina. Pure troppo. Solo che anche qui ci vuole misura e buon senso: così come la marijuana, poveretta, da sempre demonizzata e vietata, ha attirato, attira e attirerà milioni di… sorridenti e pacifici consumatori, anche l’hamburger o la schifezza confezionata rischiano di fare questa fine da martiri. E badate bene, non sto difendendo l’hamburger o la merendina. Bisogna educare, convincere. Ma vietare provoca di solito l’effetto contrario. Al massimo bisogna suggerire in modo robusto. Anche perchè noi stessi abbiamo speso pomeriggi interi della nostra personale era dei brufoli e della voce strana seduti in qualche Burghy, con acconciature improponibili e vestiti che per la verità adesso li trovi nelle vetrine a prezzi da non credere. Ad averlo saputo li avrei tenuti tutti… Quindi, corretta alimentazione, cura del dettaglio a tavola, tabelle nutrizionali, diete, apporti, quello che volete, ma senza superare il limite che determina la schiavitù.

E adesso scusatemi, ma devo rivedere il post una cinquantina di volte ancora prima di pubblicarlo: aggiustare bene le virgole, provare diversi font, capire come meglio spezzarlo in paragrafi… Chi l’ha detto che il blog è un medium diretto e spontaneo?