Il podcast, anzi il mockcast, Morte di un giallista bolzanino è approdato su Rai Play Sound ed è già tra i più ascoltati…. È possibile seguirlo anche su Spotify…
Archivi categoria: Newsletter
L’araldo dell’ensemble
Prosegue il tour dell’amore (che uccide)

Riparte il tour di presentazione del romanzo La Parola Amore Uccide (Rizzoli 2022) del dinamico duo Jadel Andreetto & Guglielmo Pispisa.
> 8 aprile 2022 Reggio Emilia, Arci Fenulli, via Fenulli 7
> 12 aprile Bolzano, Centro Trevi, via dei Capuccini 28b (con Luca Fregona, giornalista e autore di Soldati di Sventura)
> 13 aprile Rovereto, Libreria Arcadia, via fratelli Fontana 16

Nel frattempo è online l’audio della presentazione bolognese con 2/3 di Wu Ming.
lI ventennale del collettivo Kai Zen, la parola “Bolzano” uccide, lo sfascio qualunquista del «noir all’italiana», apologia di Fruttero & Lucentini, che fine ha fatto Marco Felder, quando la lotta armata paga, una guida all’ascolto del folk apocalittico e tante altre cose nella conversazione tra un 50% di Kai Zen e un 33,33333% di Wu Ming.
La chiacchierata si è svolta alla libreria Ubik di Bologna il 16 marzo scorso, in forma di presentazione de La parola amore uccide, romanzo di Jadel Andreetto e Guglielmo Pispisa appena edito da Rizzoli.
Registrazione, sound editing e perturbazioni by Bhutan Clan. Dura un’ora e 24-
Buon ascolto.
Chissà come si divertivano!
Nel 1951 un amico di Isaac Asimov gli chiese di scrivere un racconto breve per un giornale scolastico… 137 anni prima di quanto lo scrittore non avesse previsto ci siamo precipitati dentro.

Margie lo scrisse perfino nel suo diario, quella sera. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157, scrisse: «Oggi Tommy ha trovato un vero libro!»
Era un libro antichissimo. Il nonno di Margie aveva detto una volta che, quand’era bambino lui, suo nonno gli aveva detto che c’era stata un’epoca in cui tutte le storie e i racconti erano stampati su carta.
Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com’era previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c’erano le stesse parole che loro avevano già letto la prima volta.
«Mamma mia, che spreco» disse Tommy. «Quand’uno è arrivato in fondo al libro, che cosa fa? Lo butta via, immagino. Il nostro schermo televisivo deve avere avuto un milione di libri, sopra, ed è ancora buono per chissà quanti altri. Chi si sognerebbe di buttarlo via?»
«Lo stesso vale per il mio» disse Margie. Aveva undici anni, lei, e non aveva visto tanti telelibri quanti ne aveva visti Tommy. Lui di anni ne aveva tredici.
«Dove l’hai trovato?» gli domandò.
«In casa.» Indicò senza guardare, perché era occupatissimo a leggere. «In solaio.»
«Di che cosa parla?»
«Di scuola.»
«Di scuola?» Il tono di Margie era sprezzante. «Cosa c’è da scrivere, sulla scuola? Io, la scuola, la odio.»
Margie aveva sempre odiato la scuola, ma ora la odiava più che mai. L’insegnante meccanico le aveva assegnato un test dopo l’altro di geografia, e lei aveva risposto sempre peggio, finché la madre aveva scosso la testa, avvilita, e aveva mandato a chiamare l’Ispettore della Contea.
Era un omino tondo tondo, l’Ispettore, con una faccia rossa e uno scatolone di arnesi con fili e con quadranti. Aveva sorriso a Margie e le aveva offerto una mela, poi aveva smontato l’insegnante in tanti pezzi. Margie aveva sperato che poi non sapesse più come rimetterli insieme, ma lui lo sapeva e, in poco più di un’ora, l’insegnante era di nuovo tutto intero, largo, nero e brutto, con un grosso schermo sul quale erano illustrate tutte le lezioni e venivano scritte tutte le domande. Ma non era quello, il peggio. La cosa che Margie odiava soprattutto era la fessura dove lei doveva infilare i compiti e i testi compilati. Le toccava scriverli in un codice perforato che le avevano fatto imparare quando aveva sei anni, e il maestro meccanico calcolava i voti a una velocità spaventosa.
L’ispettore aveva sorriso, una volta finito il lavoro, e aveva accarezzato la testa di Margie. Alla mamma aveva detto: «Non è colpa della bambina, signora Jones. Secondo me, il settore geografia era regolato male. Sa, sono inconvenienti che capitano, a volte. L’ho rallentato. Ora è su un livello medio per alunni di dieci anni. Anzi, direi che l’andamento generale dei progressi della scolara sia piuttosto soddisfacente.» E aveva fatto un’altra carezza sulla testa a Margie.
Margie era delusa. Aveva sperato che si portassero via l’insegnante, per ripararlo in officina. Una volta s’erano tenuti quello di Tommy per circa un mese, perché il settore storia era andato completamente a pallino.
Così, disse a Tommy: «Ma come gli viene in mente, a uno, di scrivere un libro sulla scuola?»
Tommy la squadrò con aria di superiorità. «Ma non è una scuola come la nostra, stupida! Questo è un tipo di scuola molto antico, come l’avevano centinaia e centinaia di anni fa.» Poi aggiunse altezzosamente, pronunciando la parola con cura. «Secoli fa.»
Margie era offesa. «Be’, io non so che specie di scuola avessero, tutto quel tempo fa.» Per un po’ continuò a sbirciare il libro, china sopra la spalla di lui, poi disse: «In ogni modo, avevano un maestro.»
«Certo che avevano un maestro, ma non era un maestro regolare. Era un uomo.»
«Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro?»
«Be’, spiegava le cose ai ragazzi e alle ragazze, dava da fare dei compiti a casa e faceva delle domande.»
«Un uomo non è abbastanza in gamba.»
«Sì che lo è. Mio papà ne sa quanto il mio maestro.»
«Ma va’! Un uomo non può saperne quanto un maestro.»
«Ne sa quasi quanto il maestro, ci scommetto.»
Margie non era preparata a mettere in dubbio quell’affermazione. Disse:
«Io non ce lo vorrei un estraneo in casa mia, a insegnarmi.»
Tommy rise a più non posso. «Non sai proprio niente, Margie. Gli insegnanti non vivevano in casa. Avevano un edificio speciale e tutti i ragazzi andavano là.»
«E imparavano tutti la stessa cosa?»
«Certo, se avevano la stessa età.»
«Ma la mia mamma dice che un insegnante dev’essere regolato perché si adatti alla mente di uno scolaro o di una scolara, e che ogni bambino deve essere istruito in modo diverso.»
«Sì, però loro a quei tempi non facevano così. Se non ti va, fai a meno di leggere il libro.»
«Non ho detto che non mi va, io» si affrettò a precisare Margie. Certo che voleva leggere di quelle buffe scuole.
Non erano nemmeno a metà del libro quando la signora Jones chiamò:
«Margie! A scuola!»
Margie guardò in su. «Non ancora, mamma.»
«Subito!» disse la signora Jones. «E sarà ora di scuola anche per Tommy, probabilmente.»
Margie disse a Tommy: «Posso leggere ancora un po’ il libro con te, dopo la scuola?»
«Vedremo» rispose lui, con noncuranza. Si allontanò fischiettando, il vecchio libro polveroso stretto sotto il braccio.
Margie se ne andò in classe. L’aula era proprio accanto alla sua cameretta, e l’insegnante meccanico, già in funzione, la stava aspettando. Era in funzione sempre alla stessa ora, tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, perché la mamma diceva che le bambine imparavano meglio se imparavano a orari regolari.
Lo schermo era illuminato e diceva: «Oggi la lezione di aritmetica è sull’addizione delle frazioni proprie. Prego inserire il compito di ieri nell’apposita fessura.»
Margie obbedì, con un sospiro. Stava pensando alle vecchie scuole che c’erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare.
E i maestri erano persone…
L’insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo: «Quando addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4 …»
Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si divertivano!
Le quindici pietre del giardino zen: un esperimento di romanzo psichico collettivo

sulla spiaggia di Rimini da un drone,
un’intelligenza artificiale
Gysin aveva inventato la dream machine, un cilindro luminoso che induce effetti psicotropi sulla mente di chi lo fissa. I social network ci sembrano, oggi più che mai, una nightmare machine che induce solo bad trip, e l’informazione di massa è la colonna sonora di questo viaggio andato a male.
Mai come ora ci sentiamo bisognosi di decontrollo. Come ensemble narrativo nel corso di quasi due decenni abbiamo esplorato varie forme di scrittura collaborativa e di esperimenti letterari, tra cui i romanzi totali e i mosaic novel (sui quali però esercitavamo il controllo), ma quello che vi proponiamo oggi è un piccolo salto quantico. Lo potremmo definire un iperromanzo, ma ci piace pensare che si tratti di un romanzo psichico, di una meditazione narrativa, una pratica (kai) zen per esercitare il decontrollo. Per ricordarci che la “società” che ci controlla… be’, quella società in fondo siamo noi e in un momento cruciale come il presente dovremmo tenerlo a mente, per agire con consapevolezza adesso invece di subire per lamentarsi dopo. Ma visto che l’azione fisica è per forza di cose al momento limitata, e visto che il pensiero è azione, vi proponiamo queste quindici pietre su cui meditare. Non c’è nulla da scrivere, a meno che non lo vogliate. Mettete assieme i pezzi in ordine sparso (tutti, alcuni o meglio ancora nessuno) e costruite il vostro racconto mentale. È sufficiente riflettere. Non è certo poco.
Se, prima di cominciare, vi serve un kit di sopravvivenza, lo trovate qui.
Timothy Morton definisce gli iperoggetti come entità che hanno una dimensione spaziale e temporale tale da incrinare l’idea stessa di oggetto. Un iperoggetto è un’idea, ma al tempo stesso un oggetto concreto: riguarda tutti gli esseri umani da vicino, è connesso a tutte le nostre attività e agli oggetti con cui abbiamo a che fare, eppure è percepito come lontanissimo (Morton individua come esempio principale della sua riflessione il riscaldamento globale). Gli iperoggetti infestano il nostro spazio sociale e psichico, sono viscosi e si attaccano alle entità con le quali vengono in contatto. In questo senso anche un telefonino o un social network sono iperoggetti. Ne facciamo parte e per questo non riusciamo a osservarli. Sono troppo grandi per poterli cogliere nella loro dimensione e complessità. È come se un sub volesse abbracciare con lo sguardo l’Oceano con tutte le creature che lo abitano e le forze fisiche che lo animano. Da settimane siamo alle prese, più o meno consapevolmente, con un iperoggetto di cui riusciamo a cogliere solo alcuni frammenti. No, l’iperoggetto non è il coronavirus, quello è un frammento. Come lo è la quarantena. Era molto tempo che non sbattevamo il muso così duramente su un iperoggetto. È davvero complesso e gigantesco e non riusciamo a delinearne i contorni, avremo bisogno di tempo per coglierne vari – e comunque pochi – frammenti e di ancora più tempo per collegarli gli uni agli altri nel tentativo di dar loro un senso ‘umano’. Intanto possiamo provare a fare un po’ di fiction, forse non è molto ma nemmeno poco, ed è comunque un inizio. Ci sarebbe da scriverne un romanzo, anzi una saga di romanzi, ma vorremmo fare un piccolo esperimento e lasciare che siate voi a unire i puntini e a dipanare la matassa come meglio vi aggrada. Insomma, vorremmo ricreare in laboratorio lo spaesamento e l’orrore cosmico, vorremmo gettarvi in pasto un micro-iperoggetto fatto di frammenti.
Il giardino roccioso del tempio Ryōan-ji a Kyoto si osserva da una terrazza di legno. Ogni visitatore camminando da un estremo all’altro può contare le pietre. Sono quindici, ma non c’è un solo punto dal quale sia possibile vederle tutte. La totalità è frammentaria ed è, soprattutto, una questione di prospettiva. Per quanto sia impossibile accedere al tutto è possibile comunque muoversi sulla terrazza e osservare tutte e quindici le pietre da angolature diverse e, forse, metterle in relazione. Il movimento è quindi una ricerca continua, un infinito domandarsi qualcosa di nuovo, sondando la complessità di quella che chiamiamo realtà nell’intrico delle relazioni in cui si definisce. In certi punti della terrazza, alcune pietre sono in primo piano, in certi altri non si vedono proprio. Ecco le nostre quindici pietre, a voi immaginare l’iper-romanzo o meglio quella che potremmo definire auto-(non)fiction in cui siamo immersi.
Le pietre:
- Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell sono collassati l’uno sull’altro… Huxley scriveva: “Ci sarà in una delle prossime generazioni un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici.”
- Il riscaldamento globale scioglie le calotte polari: patogeni, virus, batteri preistorici si liberano nell’aria.
- La classe dirigente è spaesata, inerme ma allo stesso tempo avida e spregiudicata.
- L’industria bellica continua a prosperare, mentre, negli ultimi decenni la spesa sanitaria ha subito un taglio sempre più sistematico e drastico.
- La politica risponde recitando dei rosari in TV.
- Diventa più evidente che il capo politico funzionale a questi tempi è il padre padrone, nelle sue diverse ma complementari declinazioni di padre saggio e comprensivo o di padre burbero e rude che maltratta noi bambini per il nostro bene o, infine, di Grande Fratello (vedi la pietra 1).
- La stampa diffonde paura e senso di colpa. È colpa dei cittadini se il virus non si ferma, non di chi ha smantellato il sistema sanitario pezzo per pezzo.
- Molti cittadini, abituati al bipensiero (vedi la pietra 1), sono controllati e controllori. La psicopolizia di Orwell affianca la polizia.
- La clausura alimenta il liberismo globale, si sacrifica la privacy e si santifica la Silicon Valley (il metodo farmacologico, vedi la pietra 1, è la rete). La nuova droga sono sempre più i social network.
- Gli ultimi decenni hanno visto l’accelerazione tecnologica più vertiginosa di tutti i tempi. L’intelligenza artificiale ci ha superato ampiamente, non capiamo cosa faccia e perché lo faccia. Le transazioni di borsa, le sperimentazioni farmaceutiche, le previsioni meteo, il riconoscimento facciale, i big data, la sorveglianza… Algoritmi che non comprendiamo, ma che regolano le nostre vite.
- Si officiano riti con serpenti e pipistrelli. Ci si ciba della loro carne. È una notizia falsa creata da un algoritmo? La tecnologia più avanzata evoca riti ancestrali.
- Aumenta a dismisura il tempo da dedicare alla riflessione su noi stessi e sul mondo, o semplicemente per fare quello che dicevamo sempre di non avere tempo di fare. Non lo facciamo lo stesso, perché non riusciamo a proiettarci oltre i tempi della quarantena, della immediata prossima tappa imposta, al di là della quale non ci si riesce a immaginare. La capacità di concentrazione delle persone è ormai minima, rarefatta e si addensa solo sulla prossima necessità di minuto mantenimento.
- In clausura c’è chi ha perso il lavoro e chi lo perderà, in clausura ci sono le famiglie di chi invece è costretto ad andare in fabbrica rischiando di infettarsi e di infettarle quando rientra in nome della produttività, in clausura ci sono donne in compagnia dei loro carnefici, ci sono malati, depressi, sordociechi che non possono toccare nessuno e sono piombati in una clausura ancora più devastante, autistici la cui routine è stata fatta saltare in aria come una diga che non serve più, tossici in preda a crisi devastanti, carcerati senza alcun diritto perché tanto è lo stesso. La clausura ha ridotto l’inquinamento (anche se non abbastanza, vedi la pietra 15), orsi, delfini, daini, ecc. tornano ad abitare i luoghi da cui erano scomparsi. In clausura c’è la criminalità organizzata e chissà cosa fa e come sfrutta il momento. In clausura ci sono io e ci siete voi. Ma chi siamo davvero?
- Siamo cyborg a tutti gli effetti, gli smartphone sono sempre con noi e sono sempre connessi. Abbiamo demandato loro la nostra capacità di ricordare come fossero memorie esterne in cui archiviamo gigabyte di foto, appunti, conversazioni, canzoni, numeri di telefono che non riusciamo più a ricordare, li usiamo per orientarci nello spazio, per studiare, per informarci, per capire se un ristorante ci piacerà senza aver assaggiato nulla, per fare delle operazioni matematiche, per eccitarci e per divertirci. Demandiamo tutto agli algoritmi, dalle fantasie sessuali al percorso per tornare a casa. Il flusso dei nostri pensieri scorre assieme a quello di miliardi di altri utenti creando un inconscio collettivo digitale che alimenta l’intelligenza artificiale (nel racconto “La risposta” di Fredric Brown viene costruito il computer più potente dell’universo. Può risolvere qualsiasi quesito e quando gli viene chiesto se Dio esiste risponde: sì, ora esiste»). La società più egoista della storia ha rinunciato all’individualismo perché è stata assimilata a forza da una sorta di collettività Borg. La nostra soglia d’attenzione si è ridotta a pochi secondi, poco più di quella di un pesce rosso, possiamo concentrarci giusto il tempo di leggere un annuncio pubblicitario e passare al successivo. Come scrive Byung–Chul Han, la digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione, tutta la cultura del mi piace, elimina la negatività della resistenza. E nell’epoca post–fattuale delle fake news o dei deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà. Ora il virus reale, quindi non informatico, scatena uno shock. La realtà, la resistenza, torna a farsi sentire nella forma di un virus ostile. La reazione di panico violenta ed esagerata va ricondotta a questo shock di realtà.
- Internet consuma il 7% dell’energia elettrica mondiale ed emette tonnellate di CO2 nell’aria. La CO2, divorando l’ossigeno, ci rende più stupidi. I video e i meme sul coronavirus aumentano vertiginosamente il consumo di risorse e contribuiscono al riscaldamento globale, che è un iperoggetto che fatichiamo a comprendere, nel frattempo le nostre capacità cognitive diminuiscono e aumenta il nostro bisogno di informazioni inutili, di intrattenimento e di serotonina da like. I gattini ci stermineranno.
Come cantavano i God Machine: stare into your Dream machine: see what you see but don’t say that you see it.
Carta da parati (Borghesi piccoli piccoli ai tempi del colera)
Pubblicato su Tempostretto
Tuuu bella e triste tuuu
La voce acuta di Gianni Bella riempiva l’incrocio deserto sotto i balconi di casa di Juri. Veniva fuori dalle casse di una Fiat Punto con la portiera sinistra aperta. Un signore col telefonino girava intorno all’auto riprendendola da ogni lato per chissà quale motivo.
Juri non tornava a casa da giovedì, quando lo aveva chiamato sua moglie, supplicandolo di fare attenzione, perché la situazione stava diventando pesante, il telefono squillava in continuazione ed erano quasi sempre giornalisti. Era pure apparsa una scritta di insulti e minacce sul muro davanti al loro portone. La “situazione” era cominciata una decina di giorni prima, quando in rete aveva preso a circolare una lista di nomi di persone che erano partite per la settimana bianca facendo scalo in un aeroporto della zona rossa poco prima del lock down completo del paese a causa del virus. Di ritorno non si erano autodenunciati alle autorità sanitarie come avrebbero dovuto, ma la cosa era venuta fuori lo stesso, e nel modo peggiore, perché uno dei gitanti si era ammalato, con tanto di ricovero d’urgenza, ed era risultato positivo al virus. Il fatto e la lista erano divenuti di dominio pubblico nel giro di un post, condiviso migliaia di volte. Il nome di Juri era su quella lista.
Se n’era accorto quando avevano cominciato a tempestarlo di telefonate amici e parenti chiedendogli se stesse bene e che cosa gli fosse venuto in mente di andare in vacanza sulla neve proprio in mezzo a tutto il casino scoppiato per la pandemia. Juri li aveva rassicurati tutti: lui in settimana bianca non c’era andato, non ci aveva nemmeno pensato, in realtà. Su Facebook dicono di sì, gli avevano risposto, ci sono pure le fotografie. Juri non aveva l’account Facebook e così gli avevano inviato su Whatsapp la foto che un suo conoscente teneva sui suoi profili social senza che nemmeno lui lo sapesse: abbracciati in tuta da sci con un rifugio dietro le spalle. Ma sono state scattate l’anno scorso! aveva protestato. Niente da fare, non c’era stato verso, anche perché il suo amico, al viaggio incriminato, aveva partecipato davvero. Ormai il tam tam era partito e lui era stato additato insieme a tutti gli altri come untore, irresponsabile, idiota viziato membro della casta che comanda da sempre in città. Massoni-porci-figlidipapà-larovinadiquestopaese. Da più di due mesi la gente non poteva uscire se non per buttare la spazzatura, approvvigionarsi e far pisciare il cane ed era in piena e costante crisi di nervi, anche più del solito. Il signore col telefonino e l’auto da cui Gianni Bella cantava a manetta invece sembrava tranquillo, come se tutta quella storia, il virus, le migliaia di morti, la quarantena a tempo indefinito ordinata dal governo, non lo riguardasse affatto. Fischiettava, riprendeva fantasmi col telefonino e fumava. Juri non ne era stupito, lo conosceva di vista e sapeva che non ci stava tanto con la testa da quando qualche anno prima aveva perso un figlio. Leucemia, gli sembrava di ricordare.
Negli ultimi giorni, Juri aveva dormito in negozio: lo teneva chiuso proprio da giovedì e aveva una branda nel retrobottega, ma non ne poteva più di rimanere confinato lì dentro con la saracinesca abbassata nutrendosi di merendine. Stavolta Carla, sua moglie, sempre per telefono, si era mostrata più serena, i giornalisti non chiamavano più, la scritta minacciosa era stata cancellata. Del resto lui aveva parlato con l’azienda sanitaria, con il comune e anche con un sostituto procuratore della Repubblica incaricato dell’istruzione dell’indagine. Che lui non c’entrasse nulla era evidente, quantomeno agli inquirenti istituzionali. Per il popolo della rete il discorso era diverso, gente che credeva alle sirene, alla Terra piatta, alle catene di sant’Antonio su Whatsapp avrebbe di certo diffidato di una smentita circostanziata, perché puzzava di complotto, di depistaggio dei servizi segreti, di gruppo Bilderberg e di chissà cos’altro. E comunque anche se in settimana bianca a quel giro non c’era andato, altre volte invece sì, quella gente la frequentava, era uno di loro e il fatto che stavolta avesse avuto fortuna non lo emendava per nulla. Era feccia anche lui, tanto quanto quegli azzimati sciatori figli del privilegio. Feccia con le Hogan ai piedi e il giubbotto Invicta di tessuto tecnico.
Sentirsi moralmente superiori agli altri, proprio a quegli altri che fino a un momento prima erano in cima alla scala sociale, alla catena alimentare, e poterglielo sbattere in faccia in pubblico, con la stessa sfottente arroganza che solo ieri era stata prerogativa di quelli, era una tentazione troppo grande. Del resto, cos’altro c’era da fare in città per il momento?
Ci sarebbe voluto del tempo per convincere tutti che Juri non aveva niente a che vedere con quella storia, e con molti non ci sarebbe stato verso, sarebbero rimasti arroccati sulle loro convinzioni. Gli bruciava, ma doveva farsene una ragione.
Aveva preso un sacchetto della spazzatura riempiendolo di tutti i resti dei suoi pasti frugali degli ultimi giorni e si era messo in strada dopo le sei e mezza, al primo imbrunire. Dal negozio a casa c’era un chilometro e mezzo e col sacchetto avrebbe dato meno nell’occhio, a patto di non avvicinarsi troppo ai cassonetti. Fino a lì le pattuglie della polizia municipale non lo avevano fermato e nemmeno quelle militari, né era stato additato dagli zelanti guardiani condominiali spesso appostati ai balconi. Ormai era sotto casa. Prima di avvicinarsi al portone si diresse, questa volta sì, ai cassonetti situati sul lato meridionale della piazza sulla quale sbucava la strada. In prossimità, vagolavano curiosi membri di una umanità varia e bizzarramente abbigliata. Un vecchio signore con un completo magenta a scacchi, papillon a pois e scarpe inglesi con sopra ghette bianche chiuse da bottoni neri si avvicinava reggendo il suo sacchetto di immondizia sul pomello intarsiato del bastone da passeggio. Una cinquantenne in tubino nero di velluto, smalto viola alle unghie lunghissime e mascherina chirurgica sul volto aveva appena depositato il suo sacchetto e si stava già allontanando, battendo rapida i tacchi alti sul marciapiede. Un giovane, bardato di sciarpa di seta nera stretta intorno alla faccia e inguainato in una tuta di foggia militare sempre nera tipo NOCS, teneva davanti a sé un robusto guinzaglio di cuoio e si comportava come se all’estremità ci fosse un cane, schioccava la lingua sul palato e mormorava Buono Achille, buono… ma attaccato al gancio non c’era niente.
Juri aveva rallentato per rispettare la distanza di sicurezza mentre il signore anziano aveva gettato il suo involto con uno scatto secco del polso per liberarlo dall’impugnatura del bastone. Il ragazzo col guinzaglio però non aveva avuto la stessa prontezza di Juri nel rallentare. Appena il signore si era voltato, accortosi della vicinanza, aveva cominciato a sbraitare: “Tenga quella bestiaccia lontana dalle mie ghette o la denuncio!”
Il ragazzo non si era scomposto: “Achille è buonissimo. È lei invece che finirà per sputarmi addosso, la smetta.” Il vecchio si era allontanato senza rispondere.
Juri aveva lanciato il sacchetto da dove si trovava, per non rischiare, e si era diretto di nuovo verso casa. In giro non c’era più nessuno, a parte il tipo della Fiat Punto. Rovistare in tasca fino a riconoscere al tatto la sagoma delle chiavi era un gesto talmente abituale fino a pochi giorni fa, che ritrovarlo gli diede una sensazione di conforto, di sicurezza per un lampo di quotidianità riemersa dal buio. Ma poi tornò il buio.
Non si puòòò moriiire deeentrooo E morendo me ne andaaaiiiii
Juri si svegliò in preda a un mal di testa fiammeggiante. La nuca gli pulsava e aveva la bocca impastata. La stanza era in penombra, ma non gli sembrava affatto casa sua, anzi non gli sembrava di averlo mai visto, quel posto. Alle pareti c’era una carta da parati a fiori arancione orrenda e un mobile scuro in fondo, forse un tavolo o una credenza, da dov’era steso non riusciva a capire bene. Fece leva sui gomiti per alzarsi, ma qualcosa lo trattenne. Abbassò lo sguardo: una cintura lo stringeva all’altezza del torace, tenendolo fermo. Man mano che diventava più lucido, nuovi particolari inquietanti si delineavano. Provò a muovere le mani e le gambe, ma era impossibile perché erano fasciate da giri e giri di nastro adesivo telato che gli bloccavano gli arti. Dimenandosi avvertì sulla schiena il disegno sottile e puntuto della struttura su cui era disteso. Una rete nuda da branda, con ogni probabilità. L’aria era satura di fumo stantio, e Gianni Bella a tutto volume imperversava ancora. Essere consapevole dell’odore dell’ambiente, lo indusse a respirare con la bocca, e fu allora che il panico gli si scatenò nel cervello come una muta di cani impazziti e latranti. Aveva il nastro adesivo anche sulle labbra.
Il ritmo cardiaco ebbe un’impennata e Juri andò in iperventilazione per qualche minuto, gli occhi appannati dalle lacrime e la gola secca come una cava di pomice. Passò un tempo che non avrebbe saputo definire, anche perché la canzone continuava ad andare in loop. Ci vollero dieci o forse quindici ripetizioni di quel ritornello perché recuperasse un’oncia di lucidità, ricordandosi in che occasione, di recente, aveva sentito quella canzone.
La fiamma di un accendino balenò alla sua sinistra. L’uomo della Fiat Punto aspirò un’ampia boccata della sigaretta, premette qualcosa sullo schermo del suo telefonino e glielo puntò addosso. Poi cominciò a parlare con voce sommessa. Era in canottiera, seduto accanto a lui.
“Siamo in diretta Facebook. Te lo dico perché devi capire, sai. È importante se capisci prima… Tu e tutti gli altri, è importante. Eravamo così contenti quel pomeriggio, io e Filippuccio mio, ma sai come? Eeehhh, contentissimi. Da quando ci era arrivata quella diagnosi tremenda tra capo e collo non avevamo avuto neanche un minuto di luce, capisci? Come se ci si fosse chiuso un coperchio sopra, e vagavamo a tentoni, cercando un interruttore che non c’era. Non è che fino ad allora la vita ci avesse trattato bene, insomma, mia moglie mancata quando Filippuccio era piccolo e tutto il resto, ma vabbè, non ci lamentavamo. Poi però anche quella bastardata della leucemia dio non ce la doveva fare, no. E invece sì, ce l’aveva fatta. Comunque te la faccio breve. Mesi di terapia, mesi a trattarlo come una porcellana, come un cristallo delicatissimo, come un fiore da innaffiare con due gocce, non troppa luce né troppo poca, aria sì ma vento no, mollichina a mollichina e alla fine il dottore aveva sorriso. Me lo avevano dimesso, guarito. Ancora debole, ma con un altro poco di pazienza tutto andava a posto. E passa una settimana, e passano due settimane e passano tre e quattro e dieci settimane e tutto va bene e noi ci rilassiamo e ce ne andiamo al cinema, che c’era Guerre Stellari e a lui gli piaceva tanto. Spettacolo delle quattro così c’è meno gente, però c’erano tanti bambini che tossivano e tiravano su col naso e io mi preoccupo e penso che forse è meglio se ce ne andiamo ma il dottore aveva detto che potevamo, e avevamo bisogno di normalità e allora rimaniamo. Filippuccio passa due ore sereno, finalmente, anche se ogni colpo di tosse di quei bambini di merda per me è una coltellata, ma perché non se li tengono a casa i genitori, dico io? Ma in fondo il motivo è lo stesso mio e di Filippuccio: per avere due ore di serenità, tanto a chi vuoi che faccia male un colpo di tosse? E te lo dico io a chi… Due settimane dopo Filippuccio era di nuovo ricoverato con la polmonite, e non è più uscito. Capisci quindi perché, lo capisci, testa di cazzo perché non te ne dovevi andare in vacanza e di certo non te ne dovevi andare in giro dopo?”
Juri avrebbe voluto urlare che lui non c’era, che lui non c’entrava niente, ma quello non avrebbe ascoltato e comunque il cerotto gli impediva di parlare. Quando arrivò la prima martellata non poté far altro che mugolare. In attesa della seconda, si voltò verso la parete con quegli assurdi fiori arancioni. Gli vennero in mente le ultime parole di Oscar Wilde, chissà dove le aveva lette: “O se ne va quella carta da parati o me ne vado io.”
Marco Felder è vivo, voi siete morti
Non potevano esimerci dal parafrasare Philip K. Dick visto che parte il mini tour di TUTTA QUELLA BRAVA GENTE nelle librerie UBIK.
Martedì 8 ottobre alle 18 da Ubik in via Irnerio 27 a Bologna con Alex Boschetti
Giovedì 10 ottobre alle 18 da Ubik in via Grappoli 7 a Bolzano con Nicoletta Rizzoli
Venerdì 11 ottobre alle 18 da Ubik in via dei Tintori 22 a Modena con Francesco Rossetti
L’orizzonte degli eventi
Nel 2017, dopo tre piani quinquennali, quattro romanzi totali, due romanzi, un blog, presentazioni in giro per il mondo, simposi, conferenze, workshop, reading sonorizzati e azioni di guerriglia narrativa pensavamo che la missione fosse terminata. L’esperienza : Kai Zen : ci sembrava avesse esaurito le sue possibilità. Dai primi esperimenti in rete siamo tornati in strada, alla penna abbiamo preferito voce, basso, chitarra, batteria e i libri degli altri. Tre lustri sono tanti, le nostre vite sono cambiate radicalmente da quel fatidico 18 febbraio del 2002 che ha sancito la nascita dell’amichevole ensemble narrativo di quartiere, ma proprio mentre la tentazione di scrivere un “comunicato” sulla fine delle ostilità si faceva sempre più impellente, lo spirito dei tempi ci ha messo i bastoni tra le ruote. Non faremo la differenza, ne siamo consapevoli, ma non ci piace l’indifferenza. Raccontare storie è una responsabilità, prima di tutto verso chi ci sta vicino, verso i nostri figli, le persone che amiamo, gli amici, i compagni di viaggio, la comunità di lettori che ci ha seguiti fin qui e verso le persone che ci hanno sostenuto e aiutato a farlo.
Non sappiamo cosa diventerà : Kai Zen : né se continuerà a chiamarsi così o chi ne farà parte. Sappiamo però che la fiamma che ha animato le nostre narrazioni negli ultimi diciassette anni non si è mai sopita, come non lo ha fatto la nostra voglia di condividerle. Le cose cambiano, ma subire il cambiamento non ci è mai piaciuto. Preferiamo andare i direzione ostinata e contraria, essere da un’altra parte quando tutti ci pensano in un determinato spazio tempo. Siamo fuoriluogo, siamo quasiparticelle, mettiamo il culo in mezzo alle pedate. Abbiamo scritto romanzi ibridi, piegato i generi, cercato l’etica nell’estetica e viceversa, spalancato le porte della nostra umile officina. Quando tutto sembrava destinato a venire ingoiato da un buco nero, abbiamo pensato che in fondo sull’orlo del buco nero è passato solo un decimo di secondo dal big bang. Guardarsi indietro era questione di un battito di ciglia, mentre davanti a noi c’era l’orizzonte degli eventi. Non era più necessario terminare la missione, non era nemmeno più necessaria la missione. Ci bastavano la passione, la morale e il cielo stellato. È così che nell’anno del Signore 2019 ha visto la luce il mosaic novel, il romanzo a mosaico, un’altra ibridazione, un’altra sbandata, un’altra direzione. Il primo frutto di questo nuovo corso si chiama Cronache dalle Polvere, lo ha pubblicato Bompiani, è firmato Zoya Barontini e il 28 di giugno lo presentiamo a Bologna. Non è uno sguardo sul passato anche se racconta del passato, non è uno sguardo sul futuro, anche se è destinato a un pubblico giovane. È una narrazione nata sull’orlo del buco nero, qui e ora.
Radiodead. Ovvero, un amabile progresso chiamato morte
Nelle recenti settimane sono venuti fuori gli ultimi lavori di varie band a me care: la musica della mia gioventù, avrebbe detto mio padre con espressione vagamente retrò e riferendosi, nel suo caso, agli anni 60. Per quanto mi riguarda parliamo invece degli anni 80 e 90. In ordine sparso infatti sono usciti LP, singoli o EP di Radiohead, Massive Attack, Red Hot Chili Peppers, The Cult e forse qualcos’altro che ora mi sfugge.
In questi giorni ho ascoltato spesso i Radiohead, che secondo me hanno fatto un album di grandissima qualità, e più li ascoltavo più mi chiedevo come mai in molti, anche fra gente assai più titolata di me per parlare, li abbiano criticati definendoli spompati, monotoni, esaurita la voce di Thom Yorke, lontani i tempi della tensione rock di Pablo Honey e The Bends o delle sperimentazioni davvero innovative di OK Computer e Kid A ecc. Noto peraltro che non li passano mai in radio, mentre gli ultimi singoli dei Red Hot o dei Cult, per dire, li sento spessissimo.
Un po’ per inerzia un po’ per cazzeggiante curiosità allora ho finito per riascoltarmi brani e album vecchi di tutti questi miei antichi beniamini, ritrovando sensazioni di un tempo e facendo raffronti. Sono arrivato a una conclusione personale: i Radiohead di oggi infastidiscono molti vecchi fan perché gli ricordano che la morte si avvicina.
Intendiamoci, Thom e soci non sono mai stati degli allegroni, ma nemmeno portano sfiga. Cerco di spiegarmi meglio. Prendiamo uno dei miei pezzi preferiti in assoluto, come Just o anche My Iron Lung. Li adoro e penso mi piaceranno sempre, ma è anche vero che sono brani fortissimamente anni 90, connotati da quel suono scrauso che i gruppi di allora (penso a partire dai Nirvana o giù di lì, ma ripeto non sono un esperto, abbiate pazienza) affermarono sbattendolo in faccia a chi dominava la scena di prima. Poi York e compagni si spostarono, arrivò la maggiore attenzione all’elettronica di Ok Computer e poi le sperimentazioni di Kid A e ancora e ancora. Se oggi mi propinassero un pezzo tipo Just, penso rimarrei perplesso, magari mi piaciucchierebbe pure ma mi verrebbe da chiedergli perché fare una copia di sé stessi quando si possono comodamente riascoltare gli originali su Youtube?
Se prendi Dark Necessities dei Red Hot o Hinterland dei Cult, le loro ultime uscite, la sensazione invece è proprio quella: non li distingui da un pezzo di vent’anni fa e più. Hinterland (che pure mi piace un sacco) potrebbe stare benissimo dentro Love, un album del 1985. Quella dei Red Hot mi fa abbastanza cacare ma il concetto è lo stesso: buttala dentro Californication e non se ne accorge nessuno. Però tutti sono contenti e le radio ringraziano.
Coi Radiohead questo non si può fare. Può non piacerti la direzione che prendono, ma non puoi negare che la loro musica abbia una direzione e che sia in evoluzione continua almeno quanto il look del loro frontman (palpebra a mezz’asta a parte). Loro non stanno fermi, o almeno non fingono di star fermi come altri colleghi coetanei. Questo impone a chi li ascolta di confrontarsi con un cambiamento e di scoprire quanta fatica, anno dopo anno, si faccia a reggere questo confronto, per non parlare dell’impossibilità di provare l’entusiasmo che davanti al cambiamento rende euforici i giovani.
E allora noi vecchi fan, che amavamo così tanto atteggiarci a bohémien senza fame né tisi né un pensiero in testa a metà anni 90, oggi ci accorgiamo che certe vecchie emozioni ci sono negate, perché oggi c’è la crisi e il mutuo e quella tossetta che non mi piace per niente, e tutto è cambiato (ma improvvisamente il cambiamento non ci sembra più così fico). Tutto è cambiato, anche la musica dei fottuti Radiohead. Proviamo un disagio sottile e rimaniamo intrappolati in un meccanismo di negazione che si manifesta con l’arrabbiatura verso questi nostri vecchi idoli che non assomigliano più ai ragazzotti di cui compravamo i dischi, e anzi nemmeno ci provano. Di reazione, preferiamo un bel tuffo nel revival dei gruppi che suonano come le copie sbiadite di quello che furono tanti anni fa.
I Radiohead, insomma, venderanno poco perché i loro migliori fan hanno 40 anni e non si sono ancora abituati all’idea di dover morire.
P.S. I Massive Attack come al solito spaccano il culo.
Resistenzialismo
Bhutan Tour suonava male, ma il concetto è che i due quarti di Kai Zen che fanno parte del Bhutan Clan sono pronti a fare l’en plein a Bologna e dintorni, per poi muovere verso Ferrare e, incredibile ma vero, tornare a casa dopo oltre vent’anni. Bolzano here we come.