BORGES: SPECCHI, LABIRINTI, TIGRI E DITTATORI (2 DI X)

Ma “le cose” della storia sono complesse. Sempre. Se poi ci si mettono pure gli stregoni, gli squadroni della morte, i gorilla e le ballerine…

12 gennaio 2007, Madrid. L’ex presidente argentina Maria Estela Martinez viene arrestata da agenti dell’Interpol presso il Commissariato generale della polizia giudiziaria spagnola. La richiesta arriva dal giudice argentino Raul Acosta, giudice federale di San Rafael, in provincia di Mendoza che ha spiccato un mandato internazionale di arresto per interrogarla nell’ambito di un processo per la scomparsa, nel marzo del 1976, di una persona residente nella zona.
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VI RACCONTO UNA STORIA 4…

Quarto e ultimo appuntamento per la lettura dei giornali d’epoca. Oggi sfogliamo alcuni quotidiani datati 29 Aprile 1937. Siamo in pieno regime fascista, la seconda guerra mondiale inizierà solo due anni più tardi e a leggere i giornali dell’epoca, a dire il vero, sembrerebbe ancora più lontana.  In realtà, però, a noi interessa questo giorno in particolare perché è il giorno in cui ha trovato la morte Antonio Gramsci, uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano e colui che ha dato vita al quotidiano l’Unità. E proprio il suo giornale, che all’epoca apparteneva alla lista nera dei quotidiani nemici del fascismo e per questo motivo ne era vietata la vendita e la diffusione, proprio l’Unità, dicevo, dalle sue pagine clandestine dava al mondo la triste notizia: “L’assassinio di Gramsci accenda nel cuore di ogni italiano il sacro fuoco della libertà!” E poi sotto di seguito: “Dalle mani dei carnefici dobbiamo strappare ad ogni costo i detenuti politici”; in realtà Gramsci non fu ucciso, almeno non in modo diretto. Diciamo che la sua lenta agonia fisica e politica iniziò nel tardo autunno del 1926, quando venne arrestato davanti casa  a Roma. All’epoca era il capo del partito comunista e come tale avrebbe dovuto aspettarsi una mossa risolutiva da parte della polizia fascista. Però a quanto pare, per partecipare a una riunione clandestina in Val Polcevera vicino Genova (riunione ritenuta fondamentale da Gramsci perché avrebbe avuto l’occasione, in quel frangente, di chiarire i rapporti fra il partito comunista italiano e quello sovietico), per partecipare a questa riunione, dicevo, rinunciò a un piano d’espatrio già pronto per lui e finì così nelle mani dei fascisti. Dopo il suo arresto il comando del partito comunista passò nelle mani di Palmiro Togliatti (di cui Gramsci non si fidava affatto); dal carcere iniziò a scrivere una serie di lettere a dirigenti del suo partito fuorché a Togliatti. Iniziò così un lento ma inesorabile distacco fra Gramsci e il partito comunista, distacco che divenne totale quando due anni più tardi Stalin, dalla Russia attraverso la III Internazionale, diede l’ordine ai compagni italiani di iniziare la rivoluzione nello stivale. Pura follia…”l’idea di tentare una rivoluzione comunista in Italia nel 1930, in pieno regime fascista e con poche centinaia di compagni a disposizione è da matti!”  Questo deve aver pensato Gramsci nel freddo della sua cella a Turi di Bari. E infatti la rivoluzione non ebbe tempo neanche di iniziare: tutti, o quasi, i compagni che tentarono di prenderne parte vennero arrestati, i più fortunati scapparono all’estero andando ad ingrossare le schiere degli esuli. A quel punto Gramsci cercò di raccogliere i cocci del socialismo italiano proponendo una Costituente antifascista che implicava una mobilitazione congiunta di comunisti e socialisti. Ma venne preso per disfattista perché non credeva ciecamente nella rivoluzione con la “r” rossa e maiuscola, e quindi venne isolato un po’ da tutti i compagni di partito, compresi quelli che si trovavano in carcere con lui a Bari.  Togliatti, invece, che era fra quelli riusciti a scappare all’estero, nonstante i dissapori passati non si dimenticò del compagno incarcerato. Promosse nel 1934 manifestazioni di solidarietà in favore di Gramsci e fece approvare dai comitati comunisti in esilio l’intenzione di presentare un’istanza di libertà condizionale al governo fascista. Un po’ pochino, a seconda di molti storici, per il compagno Gramsci, se pensiamo che Stalin solo pochi mesi prima era riuscito a strappare alle carceri naziste Dimitrov, colui che di lì a poco sarebbe diventato il segretario della III Internazionale. E se Stalin era riuscito a convincere Hitler, non poteva riuscirci anche con Mussolini? Fra l’altro i rapporti fra URSS e Stato Italiano erano sicuramente migliori di quelli fra russi e tedeschi. Ma nessuno si fece avanti presso il comitato centrale di Mosca e a Stalin dal canto suo non passò neppure per l’anticamera del cervello di muoversi per il compagno italiano galeotto. L’unico favore che Gramsci ottenne ( o meglio l’ottenne per lui la cognata Tatiana) fu quello di avere le spese della clinica Quisisana, dove l’ex leader comunista era ricoverato forzatamente, pagate dall’ambasciata Russa di Roma. E fu proprio in questa clinica che Gramsci, poco tempo dopo aver ottenuto la libertà, venne ricoverato e finì i suoi giorni. Così il quotidiano fascista Il Giornale D’Italia diede la notizia il 29 aprile del ’37, in quarta pagina fra la locandina del cinema Barberini che proponeva il film “La donna del giorno” di Jack Conway e la notizia della festa nazionale dell’Austria: “La morte di un ex deputato – È morto nella clinica privata Quisisana di Roma, dove era ricoverato da molto tempo, l’ex deputato comunista Gramsci.” Su un giornale di regime era il massimo che si poteva ottenere per l’epitaffio di un comunista…

VI RACCONTO UNA STORIA 3

E siamo arrivati al 1933. Martedì 31 Gennaio titola La Stampa: Hitler al potere in Germania” e poi sotto di seguito “L’inizio di una nuova Era in Germania – – La rapida composizione del Governo nazionalsocialsita e il primo Consiglio dei Ministri – – La prossima convocazione del Reichstag – – O voto di fiducia o scioglimento – – Le squadre d’assalto nazionalsocialiste sfilano dinanzi ad Hindenburg e a Hitler fra grandi manifestazioni” . E poi ancora in grande a centro pagina un titolo eloquente : ” La grande giornata”. Poi il giornale si dedica alla narrazione delle ultime ore frenetiche passate da Von Papen, l’ex cancelliere del disciolto governo tedesco, l’ultimo della repubblica di Weimar, incaricato di cercare una soluzione alla crisi del proprio esecutivo. Crisi risolta brillantemente in meno di ventiquattro ore, secondo il quotidiano, con l’incarico affidato a Hitler. Nelle parole del giornale c’è la solita enfatica sudditanza nei confronti del Potere, la stessa riscontrata nelle analisi precedenti (vedi vi racconto una storia 1 e 2 ), ma qui in più c’è la connivenza ideologica fra i due paesi, Italia e Germania, che di lì a poco (22 maggio 1939) si concretizzerà nella stipulazione  del patto d’acciao. Anche Il Popolo d’Italia partecipa compiaciuto alla nascita del primo cancellierato nazionalsocialista. Il quotidiano, fondato vent’anni prima dallo stesso Mussolini, titola a tutta pagina: “Adolfo Hitler assume il Governo in Germania con una coalizione di tutte le forze nazionaliste e degli ex combattenti”. Poi l’occhiello prosegue trionfante “La nostra Rivoluzione” e in riferimento all’evento in questione conclude così “…gli Italiani assistono, certamente compiaciuti, al diffondersi nel mondo delle idee fasciste e al crollo dei vecchi sistemi democratici, parlamentaristici e liberali. Oggi noi assistiamo ai primi grandiosi sviluppi internazionali della nostra Rivoluzione”; dove termini come “liberali” e “democratici” assumono una connotazione prettamente negativa. Manca poco meno di un decennio alla seconda guerra mondiale e con il senno di poi sembra facile oggi identificare nell’Italia e nella Germania il male assoluto da neutralizzare. Insomma, i maggiori quotidiani del nostro paese simpatizzavano già col regime nazista deplorando la democrazia e il liberalismo, due capisaldi della nostra società. Il problema però, è che anche paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, prima ma anche dopo la seconda guerra mondiale,  non videro poi così negativamente l’avvento in Germania del nazionalsocialismo e del fascismo in Italia. Dopo la guerra (ma anche già durante gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale)  sappiamo che sia Stati Uniti che Gran Bretagna salvarono centinaia di scienziati e agenti segreti nazisti per reclutarli poi fra le loro fila in chiave anticomunista. Prima del conflitto invece, la simpatia di inglesi e americani nei confronti dell’Italia e della Germania era dichiarata alla luce del sole: prima di tutto per motivi economici, come sempre, perché dopo secoli di conflitti nel vecchio continente finalmente venivano a crearsi stati con governi solidi e autoritari. La Germania in particolare aveva appena vissuto una crisi economica profonda a inizio secolo, crisi che aveva visto insediarsi e sciogliersi diversi governi con una inevitabile ricaduta sull’economia interna e di conseguenza anche sui commerci con l’estero. La crisi inoltre aveva dato il via ai progrom anti ebraici che raggiungeranno il loro apice nel 1938 con la tragica notte dei cristalli dove l’odio per la razza ebraica sfocerà in tutta la sua crudeltà. E  il razzismo non a caso, anche se rivolto in direzione diversa, era dilagante sia oltre oceano che al di là della manica e faceva senz’altro da collante, anche se a livello informale,  con i regimi fascista e nazista; e poi sappiamo che in molti territori degli Stati Uniti, nonostante la vittoria ottenuta il secolo precedente dagli antischiavisti nella guerra civile americana,  in molti territori, dicevo, le gente di colore veniva ghettizzata, brutalizzata e non aveva possibilità di accedere neppure ai più elementari servizi sanitari e sociali.  Gli inglesi dal canto loro erano un Impero coloniale e il trattamento riservato agli indiani, ai neozelandesi e agli altri abitanti delle colonie non era certo meglio di quello ricevuto dalla gente di colore in America. E a riprova di quanto gli americani fossero favorevoli all’avvento del nazionalsocilaismo in Germania, nella prima pagina de La Stampa, sempre del 31 Gennaio 1933, c’è un articolo a fondo pagina che analizza la reazione degli Stati Uniti alla notizia dell’elezione a cancelliere di Hitler: “L’ascesa vista con simpatia a Washington.” E poi di seguito. “Negli ambienti ufficiali l’ascesa di Hitler al potere in Germania è vista con simpatia. Pur non esprimendosi esplicitamente alcun giudizio, trattandosi di cose interne di quella Nazione, le maggiori autorità di governo, in via confidenziale e privata, esprimono il convincimento che la politica interna ed estera del nuovo Ministero sarà improntata a grande moderazione e si conviene che è bene che il partito hitleriano abbia potuto assumere infine le responsabilità di governo”. Da queste poche righe si deduce che la preoccupazione statunitense nei confronti del nascente stato nazionalsocilsta è ancora soltanto di carattere economico e forse anzi, fino al 1938 almeno, gli Stati Uniti resteranno più o meno favorevoli a un’Europa suddita del potere germanico. A far cambiare idea alla potenza americana non saranno tanto i metodi brutali riservati dai tedeschi ai prigionieri di guerra inglesi e francesi oppure il loro odio sterminatore verso polacchi, ebrei e  zingari,  culminato poi nel tentativo di portare a termine la cosidetta “soluzione finale” , ma a far entrare in guerra gli Stati Uniti e a decidere quindi l’esito del secondo conflitto mondiale,  sarà piuttosto la scelta di Hitler di mandare i propri U-boat nell’Atlantico a silurare le navi da carico statunitensi. I danni economici provocati dai sottomarini tedeschi saranno ingenti e alla fine l’America, che già da tempo veniva “stimolata” dalle potenze europee rimaste a combattere i nazisti ad intervenire nel conflitto al loro fianco, alla fine, dicevo, si deciderà ad entrare in guerra. Ma ormai per sei milioni di ebrei non ci sarà più nulla da fare.

La prossima settimana ci occuperemo delle prime pagine dei giornali usciti nei giorni seguenti la morte di Antonio Gramsci. Era il 27 Aprile 1937…


VI RACCONTO UNA STORIA 2

Titola IL SECOLO di mercoledì 17 Aprile 1912:

“Il più disastroso naufragio della storia – 1325 morti – Miliardari e notabilità fra le vittime – Drammatici particolari”

Così veniva data al mondo la notizia del naufragio del transatlantico Titanic da uno dei maggiori quotidiani italiani. L’inglese Daily News del giorno prima, invece, accanto ad una foto della nave immortalata in procinto di lasciare il porto di Southampton titola:

“Titanic goes down off cape race. – Wrecked by Collision with an Iceberg. – Terrible Loss Of Life. – Saloon Passengers Picked up from the Boats.”

Poi il quotidiano britannico suddivide in capitoli gli aspetti più importanti del disastro: il numero non ancora accertato dei superstiti, lo scenario raccapricciante che si trovarono dinanzi i marinai del Carpathian, la prima nave a soccorrere il Titanic, al momento del loro arrivo sul luogo del naufragio, che cos’è un iceberg e come si forma e via discorrendo. Ho trovato interessante il passaggio che narra di uno dei messaggi via telegrafo che inviò l’operatore di bordo (wireless operator) ai propri genitori poco prima dell’impatto della nave  con la montagna di ghiaccio galleggiante: “Making slowly for Halifax. Practically unsinkable; don’t worry”. Avete presente “le ultime parole famose” ? Beh, credo che in questa circostanza l’espressione cada a pennello, “stiamo rallentando nei pressi di Halifax. Siamo praticamente inaffondabili per cui non vi preoccupate” tradotto con un po’ di approssimazione e verrebbe quasi da sorridere se non fosse per l’immane tragedia che di lì a poco il povero telegrafista e le altre duemila persone circa ospiti del Titanic vedranno consumarsi davanti ai loro occhi. Per la cronaca il povero Smith, questo il nome del venticinquenne telegrafista che non doveva avere grosse doti di chiaroveggenza (si lo so non dovrei ironizzare su questa tragedia ma continua a materializzarsi nella mia mente la scena di lui che telegrafa a mamma  e papà “siamo inaffondabili tutto tranqui!” con l’ombra di un iceberg che gli cresce dietro le spalle) il povero Smith, dicevo,  sarà fra le 1523 vittime accertate del naufragio (il numero esatto non fu mai appurato perché la lista dei passeggeri si perse nelle profondità oceaniche). Fra le vittime saranno molti i nomi illustri dell’epoca, banchieri finanzieri e miliardari d’ogni paese. Il Secolo dedica un capitolo a parte alle “Vittime illustri” del transatlantico, non prima di aver assicurato i lettori con la notizia che “secondo le liste che pubblicano i giornali della sera… tutte le donne ed i fanciulli sarebbero salvi”. Fra gli “illustri scomparsi” il giornale indica con una particolare enfasi e partecipazione emotiva il colonnello John Jacob Astor di cui “si è trovato il corpo” ricordando che lo sfortunato era “nipote del celebre fondatore della dinastia degli Astor. Laureato in ingegneria, si era specializzato nella costruzione dei palaces Hotels. Combattè anche contro la Spagna a Cuba prendendo parte all’assedio di Santiago.” Poi l’elenco dei dispersi dal cognome altisonante continua specificando che “non si hanno notizie di William Thomas Stead…uno dei pubblicisti più noti in Inghilterra e negli Stati Uniti.” E poi ancora “numerose erano le persone eminenti della Finanza e della Banca che si trovavano a bordo” e qui il giornale inizia una sorta di “elenco prezzi”, abbastanza agghiacciante dal nostro punto di vista, accostando al nome di ogni milionario deceduto il valore del proprio patrimonio in dollari: “Isidoro Strauss con 250 milioni, Widener con 250, Guggenheim con 450 milioni, il colonnello Washington Roeblny con 121 milioni,  Shaer con 50 milioni e cioè un valore di due miliardi in sei persone”. Come già avevamo fatto notare la settimana scorsa, raccontando dell’assassinio di Re Umberto II, la visibilità mediatica delle lobby dei potentati era totale e lasciava poco spazio al “normale”, all’uomo di tutti i giorni. Ben inteso, niente di nuovo sotto il sole: è da quando la narrazione del presente è diventata notizia da diffondere su larga scala attraverso i media che l’uomo potente si ruba tutto lo spazio lasciando le briciole al popolo, ma in questo periodo particolare (fine 800′ inizi 900′) il ruolo dell’uomo di potere soprattutto sulla carta stampata sembra quasi istituzionalizzato. Alle volte pare che il giornale viva solo per raccontare del potere e di chi lo esercita. In fondo, se ci pensiamo bene, l’Italia come Stato era appena nata e aveva da poco raggiunto una seppur fragile indipendenza. E anche gli altri stati europei non se la passavano meglio, fra imperatori appena scomparsi che avevano lasciato imperi dai confini ancora incerti. Il senso di libertà e democrazia era già vivo nei popoli europei e anche in quello nordamericano ma molti passi ancora dovevano essere fatti.

La prossima settimana sfoglieremo i giornali del 31 Gennaio del 1933, quando Hitler prese il potere in Germania.

See you next week…

VI RACCONTO UNA STORIA, VI RACCONTO LA STORIA…

Dall’archivio segreto del Kai Zen Buro sono saltati fuori alcuni pacchi di vecchi giornali ammuffiti. Raccontano di avvenimenti e storie che hanno cambiato l’Italia e il mondo tra la fine dell’800 e la metà del 900. Abbiamo provato a risistemarli in ordine cronologico…

29 LUGLIO 1900: L’ASSASSINIO DI RE UMBERTO I

Scrive il Corriere della Sera nella sua seconda edizione straordinaria del 30 luglio 1900: Re Umberto assassinato a Monza.” I fatti sono narrati in prima pagina su cinque colonne:

Abbiamo da Monza, 29 luglio, notte: oggi ebbe qui luogo la chiusura del concorso ginnastico, riuscito assai bene sino verso alla fine, ma alla fine funestato da un orrendo delitto: un attentato alla vita del Re.”

La cronaca è minuziosa, divisa in capitoli, momento per momento. Dalle righe traspare tutta l’influenza e il potere che la monarchia aveva ai quei tempi sui mezzi d’informazione; la sudditanza politica del giornalista è totale, c’è quasi un’adorazione di chi narra nei confronti  dei reali d’Italia:

“IL RE ALLA PALESTRA GINNASTICA

Re Umberto col seguito. in due carrozze di Corte, giunse alla palestra alle 9,30 precise. Fu accolto al suono della marcia reale, e da applausi. Il Re era vestito in borghese. Salito sul palco reale, restò sempre in piedi durante tutta la cerimonia. Egli aveva alla sua destra l’on. deputato Penati, alla sinistra il sindaco di Monza cav. Corbetta. In fondo al palco, attorno attorno, erano le bandiere delle varie Società intervenute al congresso.” È veramente curioso notare con che enfasi e maniacalità descrittiva il giornale segue il susseguirsi degli avvenimenti fino al momento del regicidio:

Mentre la carrozza stava per uscire dal portone, una folla di ginnasti si accalcò attorno alla carrozza, facendo una grande dimostrazione al Re. Sua Maestà si alzò e disse: – Grazie giovanotti, grazie giovanotti! – Si sentirono tre colpi di rivoltella, quasi consecutivi. Un individuo aveva sparato tre colpi di rivoltella contro il Re! I cavalli si impennarono; e poi ripartirono tosto. Lì per lì non si seppe se il Re fosse stato ferito.

L’ASSASSINO

Molti si scagliarono contro l’assassino; un giovanotto, vestito da operaio, mingherlino. Il giovane Pirovano, della FORZA E CORAGGIO (in realtà pare che l’associazione sportiva in questione si chiamasse FORTI E LIBERI) pigliò per le orecchie l’assassino; ma questi gli sfuggì. Un pompiere gli diede un pugno in viso; altri si scagliarono sul miserabile, e lo tempestarono di pugni e bastonate. Con grande fatica carabinieri e pompieri lo salvarono dalla furia della folla, che voleva farlo a brani. L’assassino è Oreste Bressi, di Prato (nella confusione delle prime ore il nome dell’assassino del Re cambiò parecchie volte fino al definitivo Gaetano Bresci, il vero autore dell’omicidio). Nacque un grande scompiglio, molte signore svennero. Tutta la folla si riversò verso la Villa Reale, facendo al Re un’entusiastica dimostrazione. I cancelli della Villa furono chiusi. Nessuno poté sapere sulle prime lo stato del Re.”

Alla fine la notizia della morte di Re Umberto divenne certa:

Il Re era stato colpito dalla prima revolverata alla gola, dalla seconda al cuore. Il terzo colpo andò a vuoto. Il Re spirò prima di giungere alla Villa Reale. Fu chiamato d’urgenza il chirurgo primario dell’Ospedale Umberto I. dott. Vercelli; ma egli non poté che constatare il decesso di Sua Maestà. Le ultime parole del Re furono: – Era molto tempo che non assistevo in mezzo al mio popolo ad una dimostrazione di simpatia così cordiale! Pochi secondi dopo era colpito! Il Re fu visto sedersi e ripiegarsi in avanti senza poter dire una parola. Il generale Ponzio-Vaglia lo sostenne e fu in quel momento che l’assassino sparò il terzo colpo andato a vuoto.”

Così narrata, la morte di Re Umberto sembra quasi l’epilogo tragico di un romanzo cavalleresco, dove l’eroe buono, in questo caso il sovrano, spira fra le “calde braccia” del suo popolo; un popolo che, nel tentativo di linciaggio dell’assassino del Re cerca e in qualche modo trova uno sfogo rabbioso, ma giustificato, alla propria improvvisa condizione di “orfano”.

See you next week…

P.S.: per chi volesse in formato PDF copia delle prime pagine dei giornali trattati nei posts può farne richiesta a kaizenbrian@tiscali.it

Io sto con gli zingari…

Fin da bambino, purtroppo, sono stato abituato a sospettare di quelli che venivano identificati  come “zingari”.  “Stai lontano che quelli ti rubano i soldi” “Non farti prendere che poi ti rivendono all’estero!” Ecco, frasi di questo tipo rendevano solida e reale la mia paura verso quei ragazzetti dalla faccia sporca e i vestiti sgualciti che vedevamo aggirarsi in piccoli gruppi per la città. Io sono nato e cresciuto a Bolzano, non certo la città più ospitale d’Europa, forse la più pulita e ordinata, una città che comunque ha sempre nascosto sotto la sua patina di cortesia e civiltà una diffidenza e spesso un odio per tutto ciò che è diverso e incomprensibile. E agli occhi di bambini come noi, ben vestiti e anche un po’ viziati, gli “zingari” erano diversi e soprattutto incomprensibili: non capivamo i loro sorrisi, ci metteva a disagio la loro spigliatezza, ci infastidiva il loro vestire da pezzenti. Ero bambino, quindi forse scusabile, ma ora, trent’anni dopo, mi accorgo  che la situazione è drasticamente peggiorata. Nessuno in Italia sembra più avere a cuore la sorte di queste persone e quasi nessuno sembra più interessarsi ai loro problemi, alle loro difficoltà di vivere in un paese che li ha dimenticati. Avrete notato che fino ad ora ho messo la parola “zingari” fra parentesi perché in realtà è un termine errato. Perché? Prima di tutto perché si tratta di un eteronimo. Cioè di un termine attribuito dall’esterno, imposto. Quindi comincerei col chiamare le persone con il loro nome.
La parola “zingaro” di per sé non è dispregiativa, come non lo sarebbe la parola “negro”. Negro, una volta, non era un dispregiativo. Ora lo è diventato. E se il termine “zingaro” non avesse un carattere negativo? Potrebbe pure essere corretto se nella trattazione ci si riferisse ad un insieme di gruppi molto eterogenei tra loro per lingua, cultura, valori, modi di vita. Se si vuole invece far riferimento a gruppi particolari, è appropriato utilizzare termini più specifici.
Se vogliamo riferirci ai gruppi presenti storicamente in Italia, dovremo parlare di rom e sinti. Ogni gruppo ha poi denominazioni specifiche. Ci sono i rom napulengre (di Napoli), i rom abruzzesi, i sinti piemontesi, lombardi, veneti, teich (tedeschi), marchigiani, emiliani. E poi ancora ci sono i roma harvati, detti anche istriani o sloveni, anch’essi cittadini italiani dal secondo dopoguerra. Rispetto a questi ultimi, infatti, va considerato che il rimescolamento geografico dei rom e sinti europei a causa delle due guerre mondiali è stato forte. Durante il nazifascismo, poi, sono stati deportati e sterminati, per non essere infine riconosciuti come vittime di persecuzione razziale neppure al processo di Norimberga.
Quindi vi accorgete da soli quanto è fuorviante e sbagliato chiamarli “zingari”. E invece quanto è sbagliato avere dei pregiudizi nei loro confronti? E poi siamo sicuri che tutti quelli che crediamo “zingari” lo siano veramente e viceversa??

Risponderò a queste domande con le parole di Lorenzo Monasta, un dottore in epidemiologia che da anni studia i rom e i sinti e che sull’argomento ha scritto diversi libri:  “in realtà la stragrande maggioranza dei rom e sinti che vivono in Italia vogliono integrarsi. Ed è un dato di fatto. Se solo fossimo capaci di ascoltare, ci verrebbe detto da loro stessi.
Se inoltre fossimo capaci di vedere, ci accorgeremmo che quelli che noi etichettiamo come “zingari” sono solo una parte dei rom e sinti presenti in Italia. Molti rom e sinti sono assolutamente “integrati” e mai si sognerebbero di andare a dire in giro di essere “zingari”. Hanno una casa, un lavoro, le donne non portano le gonne lunghe. Nessuna di queste caratteristiche in realtà è fondamentale per essere rom o sinti.”
Ma se chiedessimo all’italiano medio chi sono i rom e cosa ne pensa ci accorgeremmo che nel 79% dei casi risponderebbe che sono rumeni scappati dal loro paese e per vivere fanno i ladri e mendicano e quindi sono sporchi e pericolosi e per questo andrebbero cacciati. Una risposta chiara, semplice. E agghiacciante. E purtroppo ho sentito spesso anche in ambienti dove la tolleranza e la cultura dovrebbero essere di casa, vedi centri sociali oppure sedi di partiti di sinistra, parlare male degli “zingari”, dei rom. Fra l’altro tengo anche a precisare che il termine rom non centra nulla con il paese Romania. Rom è l’autonimo che la maggioranza della popolazione di lingua romanes/romani originaria dell’India del Nord utilizza per denominare il proprio gruppo. Si ritiene che questo termine sia strettamente correlato all’etnonimo Ḍom/Ḍomba, la cui prima apparizione nei testi sanscriti risale al “Sádhanamálá” (VII secolo d.C.), dove viene narrata l’esistenza di un re Ḍom, Heruka. Questa ipotesi si basa sull’analogia tra la popolazione dei ḍomba o ḍomari (in sanscrito ḍoma, ma anche Domaki, Dombo, Domra, Domaka, Dombar e varianti dalla stessa radice), ed i dom, un gruppo etnico dalle caratteristiche sedentarie e nomadiche del Medio Oriente. Tra le varie ipotesi, una delle più suggestive indicherebbe nella radice sanscrita Ḍom, onomatopeicamente connessa al suono del tamburo, che in sanscrito corrisponde alla parola Ḍamara e Ḍamaru, l’origine del termine.

E allora, alla fine, quale futuro potrà esserci per loro nel nostro paese? Verranno cancellati dalla storia come qualcuno in Europa propone in modo subdolo e meschino oppure saranno di nuovo costretti a tornare “nomadi” e vagare all’infinito per terre straniere?  Come già accennato, nel secolo scorso i nazisti tentarono di sterminarli nei lager, quel momento si identifica in lingua romani col termine porajmos, devastazione. È un po’ l’equivalente della Shoah per gli ebrei. Si calcola che mezzo milione di nomadi di ogni paese ne siano stati vittima. Non sono in grado di sapere se e per quanto ancora i nomadi verranno bistrattati e emarginati dalla nostra società, penso solo che chi non è più voluto da nessuno e non trova pace e una casa debba sentirsi solo e a disagio e per questo meriti tutta la nostra attenzione, comprensione e aiuto. A tal proposito mi piace sempre ricordare le parole di Martin Niemoeller, un pastore morto pochi anni fa: Quando presero gli ebrei non dissi niente; non ero in effetti un ebreo/ Quando presero gli zingari non dissi niente: non ero in effetti uno zingaro/ Quando presero i comunisti non dissi niente, mica ero comunista/ Quando presero gli omosessuali non dissi niente, mica ero omosessuale/ Quando presero i socialisti non dissi nulla: non ero socialista/ Quando presero me, non c’era più nessuno che avrebbe potuto dire qualcosa.

FONTI:

LORENZO MONASTA in:

http://solleviamoci.wordpress.com/2008/06/02/i-pregiudizi-contro-gli-zingari-spiegati-al-mio-cane/

TULLIO DE MAURO in:

INTERNAZIONALE n°746  – “L’Italia e gli zingari” pag.19

LA SETTA DEGLI ASSASSINI…

Chi erano gli “Assassini”? Feroce setta araba che agiva sotto l’effetto della cannabis? Oppure proto-filosofi orientali che sognavano il paradiso in terra?  Per molto tempo si è creduto che il termine assassino derivasse dalla consuetudine che avevano i membri di questa comunità di consumare hashish prima di effettuare incursioni sui nemici. In realtà, secondo studi recenti, pare che l’origine di questo termine sia ben diversa. Ma andiamo con ordine. Intorno al 1080 Hassan-I-Sabbah aveva dato origine nella Persia orientale al movimento degli Ismaeliti Nizari, sostenitori del califfo Nizar, in guerra con il fratello per l’eredità del trono di Persia. Hassan era già un personaggio leggendario presso i suoi contemporanei che lo avevano soprannominato il Vecchio della Montagna e su cui raccontavano storie fantastiche e dicerie. Fu l’abate Arnoldi di Lubecca che per primo attribuì erroneamente ai Nizari metodi sanguinari per trasformare i propri discepoli in killer spietati: “Lui trasporta questi iniziati tramite l’ebbrezza (dell’hashish ndr.) in uno stato di estasi o di demenza e poi gli si presentano in sogno dei maghi che gli mostrano delle cose fantastiche, gioie e delizie”. La tesi droga=omicidio fu poi confermata da studiosi successivi, come per esempio il tedesco Louis Lewin, autore del libro “I veleni nella storia mondiale”, che citava le ricerche di Silvestre De Sacy del 1809, secondo cui risulta chiaro che i nizari facevano uso di canapa indiana, i cui effetti erano  noti solo a pochissimi durante il violento dominio della setta che mantenne profondamente segreta questa conoscenza, dato che potevano utilizzarla per i loro scopi politici. Secondo lo psicoterapeuta viennese Hans Georg Behr però, la ricerca di De Sacy era viziata da intenti politici: nel 1800 Napoleone aveva annunciato il primo divieto della cannabis della storia recente, che allora provocò una reazione contraria.Il lavoro di De Sacy venne non a caso finanziato per intero proprio dal Bonaparte e da quel momento non solo la violenza della setta dei Nizari viene attribuita all’hashish, ma la violenza in genera si legherà in modo indissolubile al consumo di canapa indiana, concetto che è resistito fino ai giorni nostri. Ma per confutare il paradigma nizari=hashish=violenza basterebbe riportare i primi tre articoli della “costituzione” della setta di Hassan-I-Sabbah:

1. Nessuno può venire dominato contro la sua volontà. Vale solo la collaborazione tra dei dirigenti liberamente riconosciuti. Chi esercita il potere con altre condizioni, appartiene alla morte.

2.Le attuali forme statali sono inumane. Solamente la distruzione di tutti i potenti e di conseguenza della voglia di potere, renderà possibili delle condizioni paradisiache sulla terra. Chi sacrifica per questi obbiettivi la sua vita, andrà in paradiso.

3.La società futura non conoscerà la proprietà privata, ma vivrà nell’amore libero e con la proprietà comune. Un acconto di questo paradiso il credente lo può assumere di tanto in tanto con la comunione festosa dell’hashish.

Siamo di fronte a una sorta di proto-socialismo frikkettone, Marx che incontra John Lennon con otto secoli di anticipo sulla storia, e soprattutto è chiaro che la comunione con l’hashish per i Nizari è festosa. A riprova di ciò in un testo nizaro è scritto che dal momento in cui un adepto riceve un incarico egli deve astenersi dalla canapa e soprattutto si fa notare che “l’hashish rende leggiadri. Il pugnale non colpisce, dal momento che il cuore è incline alla dolcezza”. Nel 1090 la setta degli Assassini conquista la fortezza di Alamut (la mitica montagna raccontata dalla matita di Hugo Pratt e da altri poeti e scrittori), sulla cima di una montagna; la rocca resterà loro sede per diverso tempo e per molti studiosi che si rifanno agli scritti di Burchard, un cronista inviato in oriente da Federico Barbarossa, il termine assassini deriverebbe dalla parola Heysessini, letteralmente “i signori della montagna”, Alamut appunto. Il professor Simone Assemani, docente di lingue orientali a Padova, da un’origine abbastanza simile del termine; secondo i suoi studi deriverebbe da “Al sisa” che significa rocca o fortezza. Purtroppo a tutt’oggi nel sentire comune sia la setta degli Assassini sia il consumo di hashish sono erroneamente accostati al concetto di violenza. È il nostro mondo occidentale che oggi come allora, continua ad avere delle conoscenze approssimative del variegato mondo arabo. Come scrive Farhad Daftary in “The Assassin Legenda” (London 1994) gli europei del Medioevo impararono molto poco sull’islam e sui musulmani e la loro conoscenza ancora meno informata degli Ismaeliti Nizari si tramutò in poche osservazioni superficiali e in percezioni erronee e frammentarie raccolte dalle storie dei crociati dalle altre fonti occidentali. Oggi, nonostante la tecnologia a nostra disposizione, la situazione non è cambiata: per la maggioranza degli occidentali, italiani in testa, la conoscenza sul mondo arabo si limita a qualche notizia presa dal telegiornale dell’una e a un paio di articoli letti qua e là sui settimanali di approfondimento. Vi ricordate il fastidio che si prova quando si va all’estero e si incontra qualcuno del posto che appena ci identifica come italiani ci apostrofa con un perentorio: “Italiani? Pizza e mandolino!!”

Fonti: Enrico Fletzer su Soft Secrets n°1- Discover Publisher 2010

QUEL GIORNO CHE A NEWTON NON CADDE LA MELA IN TESTA

E alla fine la verità è venuta a galla: la mela più famosa della storia (dopo quella di Paride ovvio) è realmente caduta dall’albero mentre Isaac Newton era nei paraggi però, sorpresa delle sorprese, non gli è mai finita sulla testa ma si schiantò al suolo poco distante da lui. A darne conferma è niente popo di meno che la Royal Society (di cui Newton fu presidente dal 1703 al 1727 anno della sua morte) che con una interessante iniziativa ha messo a disposizione della collettività un manoscritto del 1752 scritto dal fisico William Stukeley, grande amico di Newton, intitolato appunto Memoirs of Sir Isaac Newton (Memorie sulla vita di Isaac Newton) che fra le sue pagine riporta il suddetto episodio. A sentire i britannici la biografia sarebbe anche liberamente consultabile all’indirizzo www.royalsociety.org; purtroppo io ho provato a navigare sul sito della royal in cerca del manoscritto e l’ho anche trovato. Il problema è che per il momento (e non so quale sia il motivo) non si può accedere al testo (sigh! Speriamo che ciò diventi possibile in un futuro prossimo non troppo venturo, non vorrei dover dare dei bugiardi ai discendenti di Isacco). Comunque i letterati d’oltre Manica ci assicurano che sfogliando il libercolo tra i vari aneddoti di vita del matematico e alchimista inglese, riportati dall’amico Stukeley, c’è anche l’episodio del pomo cadente. Si narra infatti che, seduto in contemplazione nel giardino della sua casa di Woolsthorpe Manor, Newton osservò il frutto cadere a terra e si domandò “… perché cade sempre perpendicolarmente a terra? Perché non va mai verso l’alto o trasversalmente ma finisce costantemente al centro della Terra? La ragione potrebbe essere questa: perché è la Terra che la attrae.” Questa preziosa biografia, che fa parte dei 250.000 manoscritti conservati dalla Royal Society, contiene anche altri curiosi aneddoti di vita di Newton, come quella volta in cui, da bambino, riuscì a costruire un mulino a vento funzionante, sul modello di quello della sua casa di Grantham. Stukeley racconta che “Isaac non era soddisfatto del funzionamento del prototipo, così ci mise dentro un topo per far girare la ruota al posto del vento. Poi per scherzo si lamentò che il piccolo roditore era un ladro perché si era mangiato tutto il grano che c’era nel mulino”. Umorismo d’altri tempi, senza dubbio. Comunque se siete interessati alle teorie e alla vita del fisico britannico vi suggerisco di fare una visita virtuale al sito della Royal Society e ai più intraprendenti consiglio di fare una capatina al 6-9 di Carlton House Terrace a Londra, è la sede della reale società dove sorseggiando del the potrete consultare manoscritti e giornali di scienza pubblicati dal 1660 a oggi.

FONTI:

Giorgia Scaturro in Storia della Scienza – STORICA N°13 Marzo 2010.

Luciano di Samosata, Tutti gli scritti, traduzione di Luigi Settembrini. Milano, Bompiani, 2007 (testo greco a fronte).

ORA E SEMPRE TRAGEDIA…

DOVE E QUANDO NASCE IL TEATRO UNIVERSALE?

Domanda retorica? Forse, ma non troppo. Perché se è vero che in molti risponderebbero rivolgendo le loro attenzioni al teatro greco è altresì vero che in pochi saprebbero dire quali fossero i temi delle grandi tragedie e commedie che il teatro ellenico rappresentava, temi che a tutt’oggi risultano ancora vivi e di grande attualità. Ma andiamo con ordine. Per la città di Atene, che era al centro dell’universo ellenico, il V secolo a.C. fu un periodo splendido e cruciale. La minaccia persiana era stata sconfitta, la città aveva consolidato la democrazia con Pericle e il benessere economico consentiva di devolvere grandi ricchezze in splendide opere pubbliche e nelle celebrazioni degli dei, Atena e Dioniso su tutti. È in questo periodo che prende forma la rappresentazione della tragedia all’interno delle manifestazioni teatrali. Era una tragedia che esaltava i rapporti tra l’individuo e la comunità, il mondo e il trascendente. Proprio in onore di Dioniso, dio della vite e dell’ebbrezza, della fertilità e della vegetazione, venivano celebrate all’inizio della primavera le Grandi Dionisie. L’intera Atene era in festa, un corteo sfilava per le vie portando ceste dorate stracolme di offerte; enormi falli portati in processione rappresentavano la fecondità, un toro e altri animali venivano portati fino al recinto del teatro cittadino, la Casa di Dioniso situato ai piedi dell’Acropoli, per essere sacrificati. All’interno del teatro accorreva una moltitudine di genti, provenienti anche dalle regioni limitrofe, per assistere alla competizione fra i tre poeti prescelti dall’arconte della città. Ciascuno di loro doveva presentare una trilogia, tre tragedie e un dramma satiresco. Di tutte le centinaia di tragedie rappresentate nel V secolo in Grecia, sono giunte sino ai giorni nostri soltanto trentadue: sette di Eschilo, sette di Sofocle, diciotto di Euripide (di cui una di origine incerta). Ma quali erano i temi affrontati da questi e dagli altri autori greci del V secolo a.C. nelle loro tragedie e commedie? E quali fra questi temi, hanno attraversato i secoli, restando sempre d’attualità e diventando quindi a buon diritto dei “temi eterni”?

Direi che sono quattro gli archetipi teatrali affrontati dagli autori greci del periodo che rispondono a queste caratteristiche: la libertà, la vendetta, il destino e lo spirito democratico. Andando con ordine, fra le tragedie che ci sono pervenute, la più antica è senz’altro I Persiani, di Eschilo, rappresentata nel 472 a.C. È un inno alla libertà che ebbe come corego (produttore diremmo oggi) Pericle. È l’unica tragedia di tema strettamente storico e celebra la vittoria ateniese a Salamina sull’esercito del re persiano Serse nel 480 a.C. In questa scena attraverso il dolore dei vinti, si ricorda la giusta vittoria dei Greci, difensori della loro terra e della libertà. La Medea di Euripide, invece, venne messa in scena durante le Grandi Dionisie del 431. L’opera racconta dell’amore tradito e della vendetta atroce di Medea, moglie di Giasone e madre di due figli, che viene ripudiata dal marito perché questi era stato già prescelto da Creonte, re di Corinto, per dare un marito alla figlia Creusa e farlo succedere al trono. Medea divenuta disperata in seguito all’indifferenza del marito, invia a Creusa un mantello avvelenato che la uccide in modo straziante; muore anche Creonte accorso in suo aiuto. Affinché poi Giasone non abbia discendenza uccide anche i suoi stessi figli condannandolo alla disperazione eterna. La forza del destino viene invece rappresentata nell’Edipo Re di Sofocle. Il protagonista è Edipo che, divenuto re di Tebe dopo aver risolto l’enigma della Sfinge, cerca di salvare la città dalla pestilenza che la affligge. Per fare ciò deve scoprire chi ha ucciso suo padre, re Laio, e poi esiliarlo. Viene chiamato a corte l’indovino Tiresia il quale annuncia a Edipo che è stato lui stesso a uccidere suo padre Laio senza saperlo e poi, sempre ignaro di tutto, ha sposato sua madre Giocasta. Sofocle evoca il momento in cui Edipo scopre il parricidio e l’incesto che ha commesso inconsapevole di tutto. Alla fine, quando Edipo trova la madre Giocasta morta suicida, si trafigge gli occhi con le fibbie della sua veste accecandosi. Partirà, ormai cieco, per l’esilio forzato con la figlia Antigone. Per finire, il quarto archetipo teatrale cioé la libertà di spirito dell’Atene democratica, viene rappresentata invece dalla Lisistrata di Aristofane. In questa commedia del 411 a.C. (due anni dopo la catastrofica spedizione ateniese in Sicilia) l’autore trova un’insolita soluzione alla guerra del Peloponneso. La protagonista è l’ateniese Lisistrata che incarna l’intelligenza femminile alla ricerca di una soluzione che ponga fine al conflitto in modo pacifico. Assecondata dalla spartana Lampito, si coalizza con le donne e occupa l’Acropoli di Atene indicendo uno sciopero a oltranza dell’amore; gli uomini saranno così messi davanti a un dilemma, o la rinuncia al sesso o la fine della guerra. Alla fine gli uomini si piegheranno al ricatto. Attraverso espedienti come quello dei due cori, uno di anziani l’altro di anziane, posti l’uno di fronte all’altro e con un linguaggio irriverente, Aristofane evidenzia sia la stanchezza per la guerra sia la libertà di spirito dell’Atene democratica, dove la Lisistrata fu messa in scena quando il conflitto del Peloponneso era ancora in pieno svolgimento.

P.S.: Questo post è un condensato dello “speciale sul teatro greco” apparso sul n° 12 della rivista “STORICA” di febbraio 2010. L’articolo originale è stato scritto da Antonio Guzman Guerra, professore di filologia greca all’Università Complutense di Madrid.

Quei milanesi col pedigree tarocco, ovvero quando il revisionismo diventa “attivo”…

n1_1C’era una volta il revisionismo storico, il caro, approssimativo, fuorviante, patetico e autoassolutorio revisionismo storico. E così attraverso le sue lenti distorte, i Lager nazisti apparivano come luoghi di villeggiatura per ebrei annoiati o non apparivano affatto e i partigiani non potevano essere altro che bande di ladri e assassini che si davano alla macchia. Ma per quanto potesse sembrare pericoloso e abominevole, il revisionismo storico esauriva la sua carica deviante quasi nell’immediato, perché incapace di collocarsi con costanza nel presente per modificarne gli aspetti e la prospettiva di chi ne subiva il fascino. Al contrario, a noi “giovani” generazioni del terzo millennio è toccato avere a che fare con suo fratello minore, molto più perfido e incalzante: il “revisionismo attivo”. È inutile che cerchiate la definizione in qualche dizionario storico o filosofico, è un termine, o meglio, un concetto che il sottoscritto si è permesso di coniare in piena autonomia. Per “revisionismo attivo” intendo ogni pratica storico-politica di pubblicità e propaganda attraverso la quale un gruppo di persone (siano esse riunite in un ente, un partito, un club o addirittura una squadra di calcio) attribuisce alla propria forma aggregativa delle origini storiche che non siano oggettivamente riscontrabili quando non del tutto fantastiche e l’operazione avvenga per dare spessore e autorità all’aggregazione stessa e di conseguenza aumentarne la popolarità e il potere mediatico. Per esempio, quando un partito che si ritiene espressione di un popolo oppure di parte di esso e attribuisce al popolo stesso delle origini storiche di stampo eroico, quasi mitiche senza che queste corrispondano alla realtà oppure possano essere documentate in modo esaustivo allora si può parlare di “revisionismo attivo”. Il movimento politico della Lega Nord mi pare l’esempio più calzante: inizialmente si autodefinivano gli eredi dei partigiani che combatterono nell’Italia del Nord contro l’invasore nazifascista, poi spostarono l’accento sulle loro fiere origini medievali, quando cioè, attraverso la Lega Lombarda, formatasi il 7 Aprile 1167 i comuni di Milano, Lodi, Ferrara, Piacenza e Parma (poi si aggiunsero altre città della zona) siglarono un accordo di  reciproco sostegno per contrastare l’avanzata dell’esercito imperiale di Federico di Hohenstaufen detto “Il Barbarossa”. L’onorevole Bossi e i suoi presero addirittura spunto dalla battaglia di Legnano del 1176, vinta dall’esercito del Carroccio contro le forze del Barbarossa, per erigere a simbolo di partito quell’ipotetico Alberto da Giussano (sembra ormai certa l’origine fantastica di questo personaggio) che a capo della Compagnia della Morte proprio in quello scontro, aveva guidato l’esercito comunale alla vittoria. Il fiero uomo d’arme che con una mano tiene sollevata la spada e con l’altra sostiene lo scudo, rappresentato sulle bandiere di partito altri non è che il vittorioso Alberto così com’è rappresentato sul monumento a lui dedicato nella città di Legnano. E partirei proprio da questo simbolo d’eroismo padano per edificare il mio j’accuse, per additare cioè i lombardi in camicia verde di “revisionismo attivo”. Fa un po’ sorridere, infatti, pensare che l’ispirazione per erigere un monumento all’eroe della battaglia di Legnano l’abbia data niente meno che Giuseppe Garibaldi, uno dei fondatori e degli artefici dell’Italia unita e un patriotta convinto, il quale mentre era di passaggio nella cittadina (1862) nel ricordare la battaglia dichiarò che bisognava erigere un monumento “per ricordare uno dei fasti più gloriosi della nostra storia, in cui ebbe parte tutta Italia”. Tutta Italia, appunto, e non solo quelle regioni che sorgono sulle rive del fiume Po. Infatti, se è vero che la Lega Lombarda era formata da comuni della pianura padana e anche vero che il suo alleato più importante si dimostrò Papa Alessandro III a cui La Lega dedicò, per ricordarne il prezioso sostegno, la fondazione di una città piemontese (Alessandria); ed è altrettanto vero che gli eserciti alleati del Barbarossa in Italia altri non erano che le agguerrite fanterie pavesi e monferrine. Insomma agli occhi dei leghisti medievali si dimostrò più amica Roma Ladrona delle città padane di Pavia e Monferrato. Per quel che concerne Alberto da Giussano, come ho accennato prima è ormai fuor di dubbio che l’eroe di Legnano non sia mai esistito; è il frutto della fantasia di un frate domenicano, tal Galvano Fiamma, autore a metà del XV secolo di una cronaca sullo scontro di Legnano, pare scritta per ingraziarsi l’allora signore di Milano, Galeazzo Visconti. E a proposito dei Visconti torna utile al mio ragionamento ricordare come anche la presunta fratellanza e il reciproco rispetto fra i popoli padani sia in realtà un’invenzione politica di questi ultimi anni. Una volta esaurito il pericolo d’invasione germanica le città della pianura padana che avevano stretto il patto di Pontida tornarono a combattersi tramutandosi col tempo in Signorie chiuse e divise dalla reciproca diffidenza. Non a caso proprio quella dei Visconti divenne una delle Signorie più agguerrite: dopo aver eliminato la fazione cittadina avversa dei Della Torre sottomise i comuni limitrofi e lo fece con tale ferocia che alcuni membri della famiglia, soprattutto Bernabò e Gian Galeazzo, vengono ricordati negli annali storici come veri e propri tiranni.

Riepilogando: cosa resta ai seguaci di Bossi per avvalorare le loro tesi secondo cui il popolo padano è da secoli unito e solidale e lotta contro gli invasori ovunque essi provengano, sia dagli Appennini a sud che dalle Alpi a nord? E quale eroe o avvenimento della storia resta a loro da venerare per dare spessore e solidità alle finte armature medievali che a ogni raduno di partito sfoggiano con orgoglio e fierezza? Alberto da Giussano a questo punto è fuori gioco, sospeso a metà fra l’ispanico di Ridley Scott  e il Don Chisciotte di Cervantes. Anche il giuramento di Pontida traballa non poco nella sua solennità, visto e considerato che era tornato in auge durante il Risorgimento per essere da esempio ai patriotti italiani tutti, da Marsala a Cantù, contro l’arroganza dell’invasore tedesco o austriaco che dir si voglia. E anche come patto di fedeltà e amicizia dei popoli padani non regge il confronto, visto e considerato che i comuni lombardi che ne presero parte si erano osteggiati e combattuti fino al giorno prima e tornarono a farlo non appena il giuramento cessò la sua ragion d’essere. Neanche contro l’odiata Roma possono poi i giovani leghisti scagliare la loro rabbia, che se non era per Papa Alessandro III e il suo oro  forse Milano e le altre città alleate  non si sarebbero mai liberate degli Hohenstaufen. Forse allora la battaglia di Legnano, al di là della presenza o meno del da Giussano e della sua Compagnia della Morte, può essere presa ad esempio come avvenimento storico al limite dell’epico, in cui dei cittadini padani male armati e ancora peggio addestrati sconfiggono i feroci cavalieri teutonici al grido di “Libertà!” e liberano, appunto, tutta la pianura del Po dal giogo dell’imperatore Federico I detto il “Barbarossa”? A pensarci bene neanche questo è del tutto vero. Con la pace di Costanza del 1183 che fece seguito agli scontri fra Lega e Impero, infatti, i comuni lombardi si sottomisero all’Imperatore germanico riconoscendone l’autorità; in cambio ottennero una larga autonomia politica e finanziaria. Che è comunque cosa ben diversa della libertà.

FONTI:

LA VERA STORIA DELLA LEGA LOMBARDA – di Cardini Franco – Mondadori Editore

I LONGOBARDI – Neil Christie – ECIG editrice

DIZIONARIO DELLE GUERRE – George C.Kohn – Armenia Editore

DIZIONARIO DELLE BATTAGLIE – Elio Rosati, Anna Maria Carassiti – Rusconi Libri

ALEA IACTA EST – Periodico di Storia Militare e Wargame N°4 – Esperia s.r.l.