Regalo di Natale

babbokaizenGli anni scorsi vi abbiamo “deliziato” con i racconti di Natale.

Quest’anno vi facciamo un altro regalo. Un capitolo del nostro romanzo ancora inedito, Mi Buenos Aires Querido. La voce narrante è quella del “Cardinale” (lo avete sentito nominare in Delta Blues, haven’t you? ), un trafficante d’armi al limite della leggenda urbana… Allacciate le cinture e godetevi la sauna.

Il mio peggior nemico è sempre stato la noia. Non lo si direbbe possibile, considerata la vita che ho avuto, ma è così. Il mio cervello mastica e digerisce anche gli eventi più singolari e emozionanti riducendoli a una poltiglia incolore, e tutto nel giro di pochissimo tempo. L’eccezionale diventa routine e mi annoio.

Dopo i miei traffici col nucleare, come avrei potuto puntare ancora più in alto, giocare a un tavolo più rischioso? È forse per questo motivo che ormai Prem Satien ha preso il sopravvento sul Cardinale. Sedotto dall’ascetismo orientale come l’ultimo dei figli dei fiori anni settanta col sitar.

In realtà in Oriente mi ci ha portato il lavoro. Vendendo ai cinesi le armi che mi procurava Dusea dalla Transnistria facevo affari giganteschi, ma i soldi non erano l’aspetto più rilevante. Il mio quartier generale di Singapore era diventato poco a poco un ufficio politico e diplomatico, più che la sede di un’azienda commerciale. Oltre un certo stadio di rilevanza, gli affari non sono più solo affari; sono teorie, sono flussi, sono ondeggiamenti di capitali e risorse umane che influiscono sulla vita e sulla storia di popoli e nazioni. Tutto diventa più astratto e allo stesso tempo terribilmente concreto, le finalità si trasformano. Dai un calcio nel sedere a qualcuno qui, e qualcun altro non si siede per una settimana là. Non è vendere armi per guadagnare, è incidere sul tessuto sociopolitico di un’area geografica per modificare gli equilibri diplomatici fra grandi potenze in un’altra parte del mondo, distante dalla prima ma a essa collegata da invisibili strategie internazionali. La proverbiale farfalla sbatte le ali a Bangkok e un tornado travolge le coste della Florida. Tutto si tiene.

La Cina è uno dei maggiori produttori di armi al mondo, ma al contempo anche un forte acquirente. Per uno come me poteva rappresentare una miniera d’oro, ma anche un rischio enorme, senza avere le spalle protette sia finanziariamente che politicamente. Io avevo le armi di Dusea, avevo la mia rete, ma non era sufficiente. I russi non avrebbero visto di buon occhio i miei traffici, dunque dovevo cercarmi un tutore altrove. Certe congiunture internazionali mi aiutarono. Nel 2001, con la Shanghai Cooperation Organisation, un gruppo di stati asiatici aveva messo insieme le rispettive risorse economiche e di intelligence. In questa sorta di lobby fra stati, Cina e Russia spadroneggiavano e la cosa non poteva far troppo piacere a Europa e Stati Uniti. Ne parlai col generale McAvoy, che ne parlò ai servizi argentini, che ne parlarono ai servizi americani. Furono tutti d’accordo che potevo essere loro d’aiuto. Col sostegno degli americani avrei fatto affari in Asia, avrei sottratto quote di mercato ai cinesi e avrei costituito un elemento fuori asse nei loro ingranaggi, avrei rappresentato un’alternativa alla loro egemonia continentale, una zona d’ombra, una testa di ponte. E, ancor più importante, una fonte primaria di informazioni riservate: chi vende, chi compra, chi fa favori a chi e perché. Questo piccolo (ma sempre meno piccolo) commerciante privato sarebbe stato in oriente la risorsa privilegiata e riservata al servizio degli interessi dell’occidente. Utile ed elegante, come un meccanismo di precisione. Ma non poteva durare.

Ne ebbi la prova una mattina di pioggia. Il temporale si abbatteva sulle costruzioni basse di Geylang e sulla mercedes che scivolava morbida nel traffico. L’autista guidava come se riponesse cristalleria in una credenza e le chiacchiere del generale Koon passavano su di me senza lasciare traccia. Mentre guardavo dal finestrino, oltre il microclima ovattato dell’abitacolo,  l’acqua densa velava i vetri e le vite di tutti quelli che si affannavano lì fuori. Koon era un buon cliente. Autoproclamatosi generale quando guidava un manipolo di ribelli birmani, oggi era rientrato nei ranghi dell’esercito democratico buddista (un‘entità coerente come potrebbe esserlo un’associazione di stupratori femministi). Lui e i suoi ragazzi facevano la guardia ai confini del Myanmar con le armi che io gli procuravo e che fondi di probabile provenienza cinese provvedevano a pagarmi. In teoria, dati i miei padrini occidentali, il generale Koon non avrei dovuto aiutarlo, perché era amico degli amici dei cinesi, ma ai miei padrini occidentali interessavano molto di più le informazioni che mettere i bastoni fra le ruote a un signorotto della guerra birmano. Dunque io avevo campo libero e, come al solito, mi arricchivo. Ogni volta che Koon veniva in città insisteva per farsi un giro a Geylang in un centro massaggi dove lo avevo portato la prima volta. Un posticino di classe, non ci trovavi i supermercati sessuali delle Orchard towers e nemmeno le prestazioni atletiche dei locali di Patpong a Bangkok. Al Moons of Jupiter non avresti mai trovato una ragazza che sparava palline da ping pong con la fica centrando tazzine da caffè, ma Koon si riteneva un uomo raffinato e dunque non gli importava. Per lui era sufficiente che non avessero più di sedici anni.

L’autista, che ci faceva anche da guardia del corpo – una precauzione che ho sempre reputato inutile –, ci accompagnò reggendoci l’ombrello fin dentro al vestibolo deserto, dopodiché lo congedai. Gli occhietti interrogativi del generale mi frugarono e io lo rassicurai con un cenno della mano: tutto a posto, qui nessuno ci verrà a disturbare. Una ragazza molto minuta, ancor più bassa di Koon, che era già piccolissimo di suo, lo prese in consegna subito, facendolo accomodare in una delle salette interne. La ragazza era vestita con semplicità: canottiera e minigonna bianche, niente scarpe e niente trucco. Veniva quasi da credere che fosse una massaggiatrice vera. Guardai scomparire le piccole orme dei suoi piedi umidi sul tek lucido del pavimento.

“Lei non approfitta per rilassarsi, Mister Odescalchi?”

“Cosa?” La voce che mi aveva colto alle spalle apparteneva a una donna sulla trentina, sottile e slanciata, mai vista. I capelli erano neri e bagnati. Li asciugava piano con il cappuccio dell’accappatoio grigio che stava indossando. La pelle era distesa e appena arrossata, come se fosse uscita da poco da una doccia calda.

“Sono qui solo in veste di accompagnatore, Miss…?”

“Ling. Quando è in veste di accompagnatore le è proibito rilassarsi?”

“A me nessuno proibisce nulla. Diciamo piuttosto che non sono nuovo a questo tipo di… relax. Oggi preferisco approfittarne per fare qualche telefonata. Sa, lavoro…”

Ling scrollò le spalle e l’accappatoio scivolò per terra. “Come vuole. Io sono nel bagno turco” disse, mentre mi sfilava davanti. Avevo frequentato donne di ogni tipo e in ogni parte del mondo, ma raramente capitava di incontrarne che esibissero quella grazia noncurante, in un bordello o fuori. Quella mi aveva ricordato Dusea. Con Dusea eravamo soci e amanti, ma non riuscivamo a vederci molto spesso: troppo lavoro e troppa distanza. Mi mancava. Sarà stato per quello che mi sentii subito molto attratto da Ling.

Non avevo nemmeno definito questa riflessione in maniera cosciente che già mi ero sbottonato la camicia e slacciato le scarpe. Riposi gli abiti alla rinfusa in uno degli armadietti dello spogliatoio antistante le sale massaggi e mi avviai lungo il corridoio, in fondo al quale si trovavano hamman e sauna, uno di fronte all’altra. Nudo, fatta eccezione per l’orologio. Oltre la porta di cristallo, il vapore si addensava sulle forme concrete, sfumandole. Le luci soffuse e cangianti non permettevano una visione completa. Intravidi Ling, abbandonata sulla panca di marmo, la testa arrovesciata all’indietro e la bocca aperta.

Non ebbi il tempo di dire una parola che da destra e sinistra due uomini mi bloccarono le braccia e mi schiantarono sulla panca di fronte. Mi sedettero a fianco e uno dei due mi afferrò il pene, tenendolo schiacciato con forza sulla superficie bollente del sedile. Da quel momento non avvertii altre costrizioni, non ce n’era bisogno: se mi fossi mosso di più di dieci centimetri, mi sarei strappato l’uccello da solo. Il sorriso compiaciuto di quello che mi schiacciava in mezzo alle gambe era eloquente. Proprio un bel sistema. I miei aggressori, nudi anch’essi, avevano fisici tarchiati e muscolosi, da lottatori, e lineamenti slavi. Uno aveva tatuato sull’avambraccio una spada dentro uno scudo: vecchia manovalanza KGB. Un terzo uomo emerse dalla nebbia.

“Bentrovato Jorge.”

“Ippolit? Che diavolo…” Non terminai l’imprecazione per non apparire più ingenuo di quanto ero stato fino a quel momento. Invece chinai il capo e mi sforzai di sorridere. Recuperare autorevolezza, credibilità, era l’unica carta che avevo in quella poco onorevole posizione.

“Grazie Ling, puoi andare” disse l’uomo. La donna si alzò, dirigendosi indolente all’uscita. Approfittai di quei pochi secondi per fare mente locale. Il mio improvvisato carceriere si chiamava Ippolit Satov. Lo conoscevo perché era il responsabile vendite di una piccola casa produttrice di raffinate armi leggere, la Igrok. Ci aveva messo in contatto il mio mentore Lajos Koba e spesso regalavo le loro armi da collezione ai miei committenti migliori per impreziosire gli ordinativi più sostanziosi. Satov era russo e amico di Koba. Koba, stando a quanto mi aveva rivelato Dusea, collaborava con i servizi russi, primo direttorato centrale, secondo dipartimento. Dunque Satov era dei servizi russi. E se due dei suoi uomini tenevano la mia virilità incollata al marmo di un bagno turco, poteva significare solo una cosa: sapevano che passavo informazioni alla CIA e la cosa non li rendeva felici. Del resto non avevo ancora un proiettile in testa, il che testimoniava che c’erano margini per trattare.

Annuii verso l’asciugamano che teneva arrotolato ai fianchi: “Non sai che qui si entra nudi? È la regola. Cos’è, hai un complesso di inferiorità?”

Ridacchiò: “Vista la posizione, non farei troppo umorismo su questo tema, adesso, se fossi in te.”

Touché.

A un suo cenno, l’uomo alla mia destra, quello che non mi teneva, diciamo, gli lasciò il posto. Satov mi sedette accanto, mentre l’insensibilità che graziosamente mi aveva fino ad allora reso ottuso il membro spiaccicato cominciava a venire meno. Lo sentivo formicolare sempre più forte.

“Posso immaginare la scomodità della tua posizione, dunque non mi perdo in giri di parole. Io qui rappresento il FBP. Do per scontato che sai cos’è. E parlo anche a nome dei servizi cinesi. Siamo informati del tuo incarico per l’intelligence americana. Se non fosse per il nostro comune amico Koba, il Guoanbu ti avrebbe già messo a riposo sotto tre metri di terra.”

Il glande mi pizzicava furiosamente, avrei voluto urlare, ma ostentai indulgenza: “Vedrò di ringraziarlo la prima volta che ci incontriamo. Immagino però che il favore non sia gratuito.”

Satov fece schioccare la lingua sul palato: “Niente è gratis a questo mondo. Da oggi tu lavori per noi. Continuerai a passare informazioni agli americani, ma saranno le informazioni che noi vogliamo fargli avere. E intanto ci aiuterai a ricostruire una lista il più possibile completa di tutti gli agenti di servizi occidentali e filo occidentali che operano a Singapore e nelle tue altre zone di influenza. In cambio potrai continuare indisturbato a fare affari con le tue armi perfino qui, a casa dei tuoi concorrenti cinesi. Anzi, ti aiuteremo a incrementare il tuo giro.”

Il patto che mi proponeva era allettante, avrei goduto di una doppia protezione, sia a est che a ovest, ma era un patto col diavolo. Se la cosa fosse trapelata, se lo FBP russo o il Guoanbu cinese a un certo punto e per qualsiasi ragione avessero deciso di scaricarmi, bruciando la mia copertura, avrei perso tutto in un colpo solo: il denaro, la posizione, il potere, la vita. “Se non mi andasse di fidarmi di voi?”

Il russo non sorrideva più. “Sei libero di alzarti e uscire da quella porta. Ma il tuo cazzo rimane su questa panca. Non te ne faresti niente comunque. La tua amichetta della Transnistria non avrà più piacere di vederti, quando avremo finito con lei, e del resto a te non rimarranno neanche i soldi per una battona da strada, quando il governo cinese avrà finito con te.”

Più che gli argomenti, era stato il tono, a convincermi.

Bastò un incrocio di sguardi: “Ling sarà il tuo contatto con noi, un fringe benefit che sono sicuro apprezzerai.”

Da quel momento, il margine sul quale camminavo da una vita si era assottigliato oltre ogni umana possibilità. Avrei dovuto vivere un’esistenza di equilibrismi, in bilico anche mentre dormivo. In fondo potevo essere contento: non mi sarei annoiato mai più. Pensavo.

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