Vuelvo al Sur 1. Reportage dal centro del mondo.

Villa 21, Buenos Aires

Maria Ester es una piba / que nacio para cojer / ella es loca por los burros / no hay pija que le venga bien. (Los Pibes Chorros)

Aspetto il mio contatto tra Cordoba e Pringles. Il sole brucia e mi rintano in una stazione di servizio con l’aria condizionata al massimo. Mi concedo una bottiglia d’acqua gelata poi torno all’incrocio rovente e aspetto. Aspetto. Con tre quarti d’ora di ritardo lo vedo attraversare la strada e venirmi incontro sorridente. È alto meno di un metro e sessanta, la maglietta si tende sul ventre a mappamondo e sotto il cappello con la visiera ha uno sguardo da eterno ragazzino. Prendiamo un autobus verso Retiro e la stazione dei treni. Assistiamo a una lite tra l’autista e un tizio particolarmente su di giri a cui partecipa mezzo autobus con commenti, suggerimenti e parolacce. La guida mi fa notare che più andiamo a sud più ci si imbarbarisce, a ogni fermata i volti, gli abiti e i comportamenti cambiano. Non prendermi per razzista dice, è una questione genetica, se per generazioni soffri la fame il tuo cervello, come il tuo fisico, non può crescere. Buenos Aires è uno specchio del mondo. Il Sud è sempre il Sud, anche su scala ridotta, i quartieri bene sono a nord le villa miseria a sud. È così. Liquida la questione con estrema facilità, è molto pratico e sa di cosa parla. Io sono portato alla complessità o forse all’ingenuità della complessità, ma io vengo da nord.

Scendiamo a Retiro, il cuore delle migrazioni quotidiane che portano i lavoratori dalla provincia in città, a migliaia. Arrivano la mattina presto, la megalopoli li ingoia e li macina per tutto il giorno. Sono in maggioranza boliviani e paraguaiani (peruviani no, perché sono tutti ladri), si spaccano la schiena per dieci ore e poi ripartono abbruttiti e logorati. Quarant’anni fa l’allenatore del Estudiantes de la Plata portava di primo mattino l’intera squadra nella hall in stile inglese della stazione, li metteva in fila a lato del corridoio principale a osservare l’arrivo in città dei pendolari, le loro membra stanche, le schiene spezzate, gli occhi a terra. Loro, diceva, lavorano. Voi siete fortunati, fate quello che vi piace e vi pagano per questo. Non dimenticatelo mai.

Il contatto mi guida rapido attraverso l’atrio, passiamo davanti a una macelleria con la carne a buon prezzo, una serie di edicole e qualche poliziotto. Sono le sei di sera, molti lavoratori sono in partenza ma è piena estate e i treni che vanno a sud vanno anche al mare e così ci sono diversi turisti, soprattutto giovani con lo zaino in spalla.

Ci ritroviamo sul retro della stazione, Buenos Aires smette di essere la Parigi del Sudamerica e diventa il Sudamerica. Ci mettiamo in fila sul marciapiede, sono l’unico bianco, sono forse il più alto della coda. Una ragazzina porta un neonato in braccio, due ragazzi sono strafatti di crack e sono in preda a scatti e spasmi. Lungo il muro della stazione, a terra e sui gradini ce ne sono molti. I visi scavati, un sorriso ebete e gli occhi vacui. Mentre un uomo curvo sotto il peso di un macchina emettitrice a spalla ci dà i biglietti e l’autobus si avvicina, uno di loro scatta in avanti, con le scarpe in mano, si lancia contro il muso del mezzo che inchioda. Con movenze canine annusa la cabina, schiaccia il volto sul vetro e legge ad alta voce la scritta con la destinazione. Urla che non è il suo autobus e se ne va saltellando. Nessuno sembra farci caso.

Facciamo il viaggio in piedi, dal barrio di Retiro passiamo a quello di Barracas, l’autopista si allontana, le case si abbassano, le strade sono un disastro. Passiamo davanti a un edificio in stile gotico circondato da un parco. Una volta, nell’Ottocento, Retiro e i quartieri centrali erano quartieri alti, poi il fiume ha esondato, c’è stata la peste e pian piano i ricchi hanno preferito andarsene. Qualche vestigia dello splendore di allora rimane ma è fagocitata dalla povertà.

Qui termina la città dice, eppure a me sembra che non termini proprio nulla. Qui comincia una città che non dovrebbe esserci. Sono terreni comunali occupati tra Barracas e Pompeya, il barrio proletario di tradizione tanghera, su cui da molti decenni si costruisce un’altra città. È la villa 21, una delle più grandi baraccopoli della capitale argentina. È abitata in maggioranza da paraguaiani, quasi tutti muratori, ladri e spacciatori o tutte tre le cose assieme. Hanno costruito una cittadella di case basse, alcune di tre o quattro piani, con materiale di fortuna e sottraendo i laterizi ai cantieri in cui sono impiegati. Chi le ha edificate ora le affitta, le vende o ci ha ricavato delle botteghe, dei chioschi, dei “saloni” da parrucchiere, dei bar. Uno di essi, specializzato in spiedini di porco alla griglia, sfoggia un murales di pessima qualità con quello che dovrebbe essere Michael Jackson alle prese con il moonwalk. La strada principale è costellata di queste attività. I cavi elettrici si annodano con quelli telefonici e con quelli della tv in grovigli inestricabili che corrono sulle nostre teste da un palo di legno all’altro. Luce, gas, acqua. Nessuno le paga, ci pensa la municipalità di Buenos Aires, così come ha appena provveduto a far asfaltare alcune stradine del reticolato che forma la villa.

Nel Commonwealth britannico si chiama slum, in Latinoamerica ha nomi diversi: in Brasile favela, in Messico ciudad perdida, in Uruguay cantegrile, in Cile callampa e in Argentina villa de emergencia e dalla fine degli anni 50’ villa miseria: un nome letterario che deriva dal libro Villa Miseria también es América di Bernardo Verbitsky. A Buenos Aires ce ne sono alcune che risalgono agli anni ’30 come la Villa 31 di Retiro, sono sorte attorno alle ferrovie o al porto, costruite e abitate dagli stessi operai ferrovieri e portuali, altre sono nate e prosperate nei pressi di certe fabbriche da cui hanno preso il nome come Villa Inti (textil INTA-Arcel) o Villa Pirelli, altre si sono sviluppate attorno a zone più ricche come La Cava a San Isidro: gli abitanti erano le famiglie dei domestici o dei giardinieri della borghesia della zona. La Cava fino agli anni ’80 era considerata una delle più pericolose della provincia di Buenos Aires, tanto da essere stata separata da San Isidro con un muro degno di quello di Berlino…

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