Dream Machine (interludio 1)

Here come the bastards, here they come

Da quando Delta Blues è in libreria sono passati solo sei giorni.  Nella testa mi ronza di continuo il pezzo dei Primus “Here come the bastards”, come mi ronza di continuo, dopo la presentazione bolognese, una riflessione sull’altro da sé. È un tema su cui rimugino da parecchio e mentre stavamo pianificando Delta Blues stavo lavorando al mio saggio su Neon Genesis Evangelion in Pop Filosofia e mi accorgo solo ora, solo dopo averne parlato in pubblico, ragionato assieme al pubblico, che deve esserci stato un cortocircuito tra le due cose. L’alterità è un tema fondamentale in Delta Blues e non ce ne siamo quasi accorti, o meglio lo abbiamo introiettato talmente tanto, che Derrida e Sartre fanno capolino a ogni pié sospinto anche se non erano invitati. Ci tornerò, dopo altre presentazioni, quando il flusso carsico che in Delta Blues unisce il “negro” al Monumento alla Vittoria di Bolzano avrà trovato il canale giusto per scorrere alla luce del sole.

La presentazione bolognese è andata ben oltre le nostre aspettative. La Compagnia Fantasma ha riscritto, sonorizzato e interpretato Delta Blues alla perfezione, cogliendo il senso di ossessione, di caduta e di oscurità forse anche meglio di quanto potessimo fare noi. L’audio della diretta non c’era, U-stream ci ha comunicato che non c’era abbastanza banda – no hay banda – ma lo abbiamo recuperato e lo metteremo online al più presto. Grazie a tutti quelli che sono venuti a sentirci, e a quelli che ci hanno provato da casa. Grazie, ne avevamo bisogno, i bastardi ne avevano bisogno per tornare e infatti eccoli che arrivano…

Eugenio Saguatti ci ha scattato qualche foto, ve le mostreremo…. intanto una, basta e avanza: coglie il momento, la congiuntura astrale che ci vede tutti e quattro assieme. Succede poche volte l’anno e quando succede, per noi, è sempre un’emozione molto forte. Siamo vicini, vicinissimi, ogni giorno ci sentiamo al telefono, ci scriviamo decine di mail, cazzeggiamo e lavoriamo fianco a fianco, ma non possiamo stare assieme. Come posso spiegarlo? È come avere i migliori amici in casa tutto il giorno e allo stesso tempo non potergli tirare una pacca sulla spalla, un coppino, stringere loro la mano, abbracciarli quando si finisce un libro o quando se ne comincia un altro…

Noi viviamo nelle nostre pagine, conosco gli altri anche e forse meglio grazie alle storie che mi raccontano. È un privilegio. Lo so. Ma a volte non basta. Alle volte ci vuole un divano vecchio di pelle in una libreria che ti fa sentire a casa

Bando alle ciance sentimentali…. domani sera e dopodomani ci trovate a Torino. Saremo alle 21:30 alle Officine Bohemien di via Mercanti 19 per DELTA BLUES e il giorno dopo saremo ospiti di Autori in Digitale alle 11.30 al il centro congressi Torino Incontra di via Nino Costa 8.

Here they come. Here come the bastards, I heard it from a confident who heard it form a confidant
They’re definately on their way. There’s one with this idea. Something about a hammer head shark, nosehairs and flatus
Best keep your distance because  Here they come here come the bastards  Bury your head deep in the sand.
Anonyminity is a virtue in this day and age.  Amazing hand dexterity . Flagrant misuse of security
Better run, run, run, run, run  Run Run Run Run, here they come

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Eine Anime für Alle und Keinen (5 di x)


More about Pop filosofiaScelte

Che scelta ho? Scegliere è assurdo, non c’è azione “moralmente migliore”. Per dirla con Sartre ai fini dell’essere “[…] è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli.”

Sartre rifiuta possa esserci qualcosa che trascenda l’individuo, qualcosa che non si leghi all’esperienza soggettiva, ponendosi come a priori dogmatico. Allora il dovere (quale necessità di agire nel rispetto della legge dell’imperativo categorico, quale norma della razionalità da cui derivano le esigenze morali) non ha senso perché Angeli ed esseri umani sono mossi da un imperativo che li costringe a sopravvivere, e per fare questo devono eliminarsi a vicenda. Essere Angelo o essere umano è ugualmente assurdo (ubriacarsi in solitudine o guidare popoli è identico). Entrambi devono fare i conti con l’etica e con la libertà.

Ma se gli Angeli, che compulsivamente sono attratti dal sottosuolo di Neo Tokyo 3, sembrano non possedere il libero arbitrio, gli esseri umani sembrerebbero averlo a portata di mano, come quando colsero il frutto proibito. Eppure alla domanda “perché piloti l’EVA?” Shinji non sa rispondere. Anzi dice a Misato che se dovesse morire nel farlo, non avrebbe importanza (4 – Fuga sotto la pioggia). Cosa rimane dunque? La morte. Anzi la possibilità della morte.

Una volta arrivati al cuore di Neo Tokyo 3, dopo uno scontro tra EVA 01 ed EVA 02 (guidato mentalmente dall’Angelo), Kaworu scardina le regole: sceglie. Si fa responsabile del suo destino e si libera. Una scena tanto statica quanto drammatica riempie lo schermo, l’EVA 01 stringe nel pugno mastodontico il corpo fragile del ragazzino. A Shinji basta un gesto, un pensiero, per serrare la morsa e stritolare Kaworu. L’inno alla gioia di Beethoven invade le casse, l’immagine rimane immobile per minuti e “la musica potrebbe in qualche maniera sussistere anche senza l’esistenza dell’universo.”

Poi l’Angelo parla.

Kaworu: Ti ringrazio, Shinji. Confidavo che tu fermassi lo 02. In altro modo, probabilmente io avrei continuato a vivere […]

Shinji: Kaworu, ma perché?

Kaworu: Perché io dovrei vivere in eterno, tale sarebbe il mio destino, anche se ciò risulterebbe nella distruzione dell’uomo. Però, io posso anche morire a questo modo, vita o morte hanno negli effetti lo stesso valore per quanto mi riguarda. La morte volontaria è anzi l’unica mia libertà assoluta. (24 – L’ultimo messaggero sacrificale)

Per Kaworu, come per l’uomo, l’esistenza stessa è niente meno che assurda – “vita o morte hanno negli effetti lo stesso valore” – e solo l’idea del suicidio può renderla dignitosa, in quanto unico atto davvero libero, come rammentava Cioran in un’intervista a Fernando Savater.

Ricordo un’occasione in cui per tre ore ho passeggiato nel Lussemburgo con un ingegnere che voleva suicidarsi. Alla fine l’ho convinto a non farlo. Gli ho detto che l’importante era aver concepito l’idea, sapersi libero. Credo che l’idea del suicidio sia l’unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze. È un’idea molto utile: dovrebbero farci delle lezioni nelle scuole!

Per Camus il suicidio è la risoluzione dell’assurdo, per Sartre invece è la morte stessa a svelare un’assurdità del tutto inconcepibile. Ma se per Sartre nulla trascende l’individuo ponendosi come a priori dogmatico, in Camus l’apriori è adogmatico: è semplicemente il voler vivere, e il principio di autoconservazione umano è più forte di quello angelico.

Shinji serra le dita dell’EVA 01, in lacrime, disperato, ma le serra e uccide l’unico altro che aveva dato senso alla sua esistenza, l’unico altro che non lo aveva ferito.

Che tipo di scelta etica è? Quale imperativo categorico ha seguito Shinji? Ha salvato l’umanità o ha ucciso un amico? La vita del singolo vale meno di quella dell’intera razza umana?

Ne L’uomo in rivolta Camus fa evolvere il concetto del principio di autoconservazione, facendogli assumere un ruolo sociale, e trasformandolo in compassione.

Il diavolo, scrive Nietzsche, ha rivelato a Zarathustra che Dio è morto della compassione per gli uomini e l’Angelo – emanazione divina – ha sì scelto di suicidarsi per affrancarsi dalle catene dell’eternità e della non scelta, ma lo ha fatto anche per com-passione verso Shinji.

Suicidarsi per Sartre invece significa l’esatto opposto di quanto detto da Kaworu. Suicidarsi è perdere la libertà, negare la propria esistenza diventando una cosa, senza la coscienza che attesti il nostro essere soggetto. La morte equivarrebbe al “trionfo degli altri”: la nostra radicale oggettivizzazione, l’essere solo oggetto per un soggetto e non viceversa. Per Sartre quindi tutto è mediato dalla coscienza, non c’è istinto di autoconservazione a priori e la morte, tra le tante possibilità che il soggetto ha di fronte, è semplicemente l’annullamento della possibilità stessa. Eppure nel caso del suicidio si tratta di una scelta e come tale, vale tanto quanto quella di rimanere in vita. L’uomo dice Sartre deve agire comunque secondo le sue scelte anche se sono mere illusioni.

Ma se sono illusioni, se tutto è illusione allora lo è anche la libertà. Se tutte le scelte sono uguali, l’universo con questo pensiero andrebbe in frantumi per dirla con Cioran, e infatti ne L’inconveniente di essere nati, la libertà viene descritta come la condizione solo di chi non è mai nato o di chi è nato morto, di chi non ha mai conosciuto il tempo.

In quest’ottica, tutto quello che nel corso della storia umana si rivela inesplicabile, nasconderebbe il suo segreto nella rabbia contro di sé, nella paura della routine, nel fatto che ogni essere umano preferisca l’inaudito al ripetersi degli eventi. L’idea dell’eterno ritorno dell’uguale sarebbe per chiunque abominevole, anche se Borges chioserebbe che “in tempi di splendore, l’idea che l’esistenza umana sia una quantità costante, invariabile, può intristire o irritare; in temi di declino (come questi), è la promessa che nessuna infamia, nessuna calamità, nessun dittatore potrà mai impoverirci.”

Se l’eterno ritorno fosse abominevole molte specie si sarebbero potute estinguere, non per via di glaciazioni, inaridimenti o altri mutamenti climatici, quanto per stanchezza: un grado di spossatezza così elevato da far prevalere l’istinto sulla coscienza fino all’abolizione dello spirito di sopravvivenza e di autoconservazione – e Kaworu / Tabris sembra aver raggiunto un livello di spossatezza del genere – “ciò che (si) deve temere è l’accasciamento in quello stato in cui il desiderio di sopprimersi non è neppure immaginabile.”

J.P. Sartre, L’Essere e il Nulla, p. 738.

Cfr. A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena.

F. Savter, Cioran, un angelo sterminatore, p. 163.

Il frutto dell’albero della vita è quello raccolto dagli angeli, mentre l’uomo ha colto il frutto proibito della conoscenza. L’anelito a combattere per la vita allora deriverebbe dalla voglia di possedere ciò che non si ha. Kaworu, invece, non può conoscere la differenza tra bene e male, tra giusto e sbagliato perché non possiede la conoscenza.

Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta.

Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra.

“Concepire un pensiero, un solo e unico pensiero, ma che mandasse in frantumi l’universo.” Cfr. Cioran, E.M., Il funesto demiurgo

E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, p. 15. «Mi piacerebbe essere libero, perdutamente libero. Libero come un nato morto.”

A questo proposito la bibliografia è molto estesa. Alcuni testi o passaggi potrebbero essere significativi a riguardo: L.A. Blanqui, L.A., L’eternità attraverso gli astri. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, sezione VIII. Marco Aurelio, Pensieri, I, 14. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Platone, Timeo, § 39. Qohélet o l’Ecclesiaste, I-9, a c. di G. Ceronetti. B. Russell, An inquiry into meaning and truth. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Libro I, § 5, § 8, Libro III, § 38. G.B. Vico, La scienza nuova.

J.L. Borges, Storia dell’eternità, p. 87.

E.M. Cioran, La caduta nel tempo, p. 120.

Cosa bolle in pentola 2

… Sul versante “solista” il vostro affezionato kai zen di quartiere J, ha consegnato qualche settimana fa, il suo contributo a un’antologia di carattere filosofico dedicata alla cultura pop, che uscirà nella prima parte del 2010.
Ci sono voluti Nietzsche, Kant, Cioran, Lévinas, Camus, Sartre, Heidegger, Hume, Dagerman e un’altra manciata di pensatori ad aiutarlo nell’impresa di esplorare un anime piuttosto noto.

La filosofia di Lost (intervista)

More about La filosofia di Lost

La filosofia di Lost. La filosofia di Lost? Davvero una serie tv può avere a che fare con la metafisica? O meglio può la metafisica avere a che fare con una serie tv? Fenomenologicamente la risposta affermativa è ineccepibile e La filosofia di Lost (Ponte alle Grazie, pp. 166; 10,20 euro) a firma Simone Regazzoni è la prova che si può condurre un’indagine rigorosa sul terreno della cultura pop sviscerando gli interrogativi “principe” dell’intera storia delle idee. Da Derrida a Heidegger, da Foucault a Freud passando per Cartesio, Gramsci, Aristotele, Nietzsche, Pascal, Schopenhauer, Sartre e Deleuze. Regazzoni, professore alla Cattolica di Milano, riesce, con una scrittura fluida, “narrativa” e accattivante laddove nessuno si era nemmeno avventurato – se non con risultati deludenti, nell’esplorazione della philosphy fiction. Dopo Harry Potter e la filosofia (Il Melangolo, 2008) e La filosofia del dr. House (Ponte alle Grazie, 2007 – con il collettivo Blitris), scandaglia l’Isola con gli strumenti della speculazione, evitando la forma saggio e costruendo uno spin off, un rizoma, di stampo filosofico della serie. Lo ho incontrato.

Tra tutte le serie televisive, perché Lost?

Cominciamo con il dire che molte, tra le nuove serie tv americane, meriterebbero attenzione da parte della filosofia, proprio nella misura in cui rappresentano le grandi narrazioni del nostro tempo. È come se la fine delle grandi narrazioni ideologiche avesse lasciato spazio a un ritorno delle narrazioni forti e strutturate nell’ambito del cinema, della letteratura e in particolare nelle nuove serie tv statunitensi. Con queste narrazioni credo sia urgente confrontarsi, anche inventando nuove forme mutanti di filosofia. Perché oggi più che mia la fiction è parte integrante di ciò che chiamiamo “realtà”. Non a caso, prima di Lost, mi sono occupato di dr. House e di Harry Potter. Quanto a Lost, ciò che in questa serie mi ha affascinato (perché prima di qualsiasi calcolo o ragionamento c’è questo: fascinazione, amore, ossessione da fan: non è possibile lavorare con la cultura di massa senza una certa dose di partecipazione) è stata la capacità di unire complessità e popolarità. Lost è un’opera d’arte – non esito a dirlo – che mostra come si possa essere, al contempo, radicalmente sperimentali e insieme popolari (stiamo parlando di milioni di telespettatori), mescolando filosofia e disaster movie, riferimenti biblici e fantascienza. Il tutto inserito in una narrazione di grande potenza ed efficacia, che sembra avvalorare la tesi di Orson Welles secondo cui la televisione ha una forza narrativa che il cinema non può eguagliare. Ecco il primo fattore di interesse, ai miei occhi, cui si connette immediatamente il secondo: l’effetto poetico di Lost. Umberto Eco, nelle sue Postille a Il nome della rosa, definisce “effetto poetico” la capacità di un’opera di generare sempre letture diverse senza esaurirsi. Ora, Lost è una macchina progettata per produrre le letture più disparate, rendendo lo spettatore una sorta di co-autore. Basta vedere che cosa accade in rete per capire fino a che punto funzioni la macchina narrativa di questa serie. Lost, detto altrimenti, è un universo narrativo in espansione transmediale. Alcune dichiarazione di Damon Lindelof, uno dei creatori della serie, sono a questo proposito molto significative: “Quando la serie sarà finita, e magari secondo le nostre volontà, il pubblico potrà ancora tornare indietro e ci sarà ancora spazio di interpretazione, come in qualsiasi opera letteraria”.

La filosofia e la tv, un rapporto burrascoso…

Sì, per molti filosofi oggi è ancora così. Ma questi filosofi non vanno presi troppo sul serio (Popper in primis naturalmente) se non come sintomo di una resistenza a un processo irreversibile di trasformazione della filosofia di fronte alla tv e, più in generale, ai nuovi media. Oggi non è più credibile, se mai lo è stato, il filosofo che, di preferenza in televisione, dichiara di non guardare la tv o di non possederla. È puro kitsch intellettuale: una caricatura del filosofo buona, ad esempio, per una serie televisiva italiana per famiglie. Certo, le caricature di filosofo non mancano, e devo dire che in fondo le amo molto. Non a caso spesso le uso nei miei libri come personaggi concettuali. C’è chi si chiede dalle colonne dei quotidiani, cito a memoria, “Guardare o non guardare Lost, 24, CSI, e quant’altro?” e chi accusa la televisione di essere un “paradigma pornografico”. Ora, è chiaro che queste accuse non sono altro che una forma di esorcismo verso un oscuro e inconfessabile oggetto del desiderio. Ma come ho già avuto modo di dire, questi filosofi sono dinosauri destinati a estinguersi. Non a caso la più importante rivista italiana di filosofia, Aut aut, dedicava nel 2007 un intero numero alla televisione dal titolo Davanti alla televisione, in cui si parlava anche dell’altro spauracchio di ogni intellettuale culturalmente corretto: i reality, a partire dal Grande Fratello. Presto occorrerà occuparsi anche di questo, a costo di scatenare nuove burrasche.

Locke, Rousseu, Hume, Bentham, Bakunin: troppo facile…

Troppo facile e banale. Lost fortunatamente non è un compendio di storia della filosofia. Altrimenti, almeno per quanto mi riguarda, sarei passato immediatamente ad altro. Sull’Isola ci sono nomi di filosofo come ci sono mille altri indizi letterari, mitologici, tratti dalla storia delle religioni. Sono tutti elementi di un gioco cui prendere parte, ma che non tollera strategie troppo prevedibili. Per questo se ci sono filosofi di cui non mi occupo nel mio libro sono proprio quelli il cui nome compare nella serie. Al di là dei nomi, sono le questioni filosofiche che l’Isola pone a interessarmi, a partire da quelle legate alle idee di mondo (è Desmond che dice: “Non esiste il mondo esterno”), di verità e, più in generale, di complessità. Leggo l’Isola come un sistema complesso cioè un sistema composto da un gran numero di parti che interagiscono in modo non semplice e in cui l’insieme è qualcosa di più della somma delle parti. Per questo chi sostiene, come il razionale Jack, che l’Isola è solo un’isola non arriverà mai a comprenderla. La razionalità di Jack sull’Isola, come nella realtà, è una semplificazione pericolosa. In un momento in cui anche importanti filosofi come Žižek o Badiou sembrano tentati di riproporre le virtù di un mondo ordinato che rompa con le logiche della complessità (tentazione che giudico pericolosa) mi sembra oltremodo interessante riflettere attorno alla questione della complessità così come viene messa in scena in Lost.

La questione dell’alterità, dell’altro, è un tema filosofico (di questi tempi più tangibile che mai) per eccellenza. In Lost è un punto centrale del meccanismo narrativo…

Sì, è centrale al punto che il termine “Altri”, con la maiuscola, diventa nella serie il nome di coloro che si trovano già sull’Isola al momento dell’incidente aereo. La tentazione potrebbe essere qui quella di evocare la filosofia di Levinas, in cui il concetto di “Altri” svolge un ruolo capitale. Ma se non chiamo in causa Levinas è perché in Lost gli Altri sono molto più traumatici di quanto non lo sia Altri in Levinas. Non a caso cito Sarte, en passant, che in una sua famosa opera teatrale fa dire a uno dei suoi personaggi: “L’inferno sono gli altri”. Gli Altri, sull’Isola, sono traumatici, sono una Cosa traumatica. Chi sono davvero? Che cosa fanno? Perché ci rapiscono? Perché ci attaccano? Perché ci imprigionano e torturano? Ecco tutta una seria di questioni che assillano i superstiti nel loro rapporto con gli Altri. Gli Altri, qui, non si lasciano facilmente addomesticare, non c’è nessuna fascinazione esotica verso di loro, ma prima di tutto conflitto e poi interazioni complesse. Ma quello che è più interessante è che agli occhi degli Altri sono proprio i superstiti ad essere Altri: dal punto di vista degli Altri i superstiti sono minacciosi, sono anch’essi Altri, gli Altri degli Altri. Il che significa che siamo sempre Altri per coloro che chiamiamo Altri. Altri è un concetto relativo alla posizione ci chi lo enuncia, come mostra bene John Locke quando afferma che Sayid è uno degli Altri per la Rousseau.

L’Isola viene paragonata alla radura di Heidegger…

Niente di più semplice per chi conosca un poco Heidegger. Credo che Heidegger ci abbia regalato, nel Novecento, uno dei più radicali e interessanti ripensamenti dell’idea di verità. Per farla breve, Heidegger pensa la verità non come adeguazione del linguaggio alla cosa, ma come non-nascondimento, come apertura di un orizzonte che nel suo aprirsi conserva sempre in sé un elemento di opacità, enigmatico e insondabile, una sorta di cuore di tenebra della verità. Per spiegare questa sua idea, Heidegger ha usato la figura della radura: la verità è una sorta di radura che si apre nel cuore di un bosco o di una foresta. Ora, ogni una radura per essere tale – uno spazio illuminato che si dischiude in una foresta – ha bisogno di conservare attorno a sé l’oscurità della foresta. Questa oscurità non è un difetto che nuoce alla radura, ma un elemento essenziale alla radura stessa. Se questa oscurità venisse eliminata, verrebbe eliminata anche l’apertura della radura. Lo stesso accade secondo Heidegger alla verità come radura: essa necessita sempre di un fondo di oscurità per manifestarsi. In Lost incontriamo spesso radure che si aprono nella foresta e che dischiudono una qualche verità: sempre parziale, che conserva sempre un elemento di opacità. Ecco perché ho evocato Heidegger. Più in generale, questa idea di verità è in assoluta consonanza con l’idea di sistema complesso di cui l’Isola è l’incarnazione. E questo con buona pace di quanti pensano che Heidegger sia una sorta di pensatore arcaicizzante e antimoderno. Non a caso il filosofo spagnolo Daniel Innerarity, parlando di come i sistemi complessi abbiano messo in crisi l’idea secondo cui i fenomeni possono essere sempre completamente svelati, ha evocato Heidegger che per primo ha posto l’accento sull’inevitabilità dell’occultamento. Venendo a Lost, direi che l’Isola ci mette proprio di fronte all’enigma di questo occultamento che sta alla base dei sistemi complessi.

Deleuze, Derrida e lo stesso Heidegger. Che cosa c’entrano con Lost?

Cominciamo con il dire che il mio libro non è, né non vuole essere, un saggio su Lost. La filosofia di Lost si presenta come uno spin-off filosofico (non a caso il sottotitolo è philosophy fiction) che prende spunto da un certo numero di questioni sollevate dalla serie per comporre un testo filosofico mutante, che si contamina con l’oggetto con cui si confronta, ne riprende alcuni elementi e strategie, e si propone esso stesso come oggetto filosofico in grado di circolare nella cultura di massa. Come testo filosofico pop. Date queste premesse mi sono preso la libertà di far interagire con l’Isola filosofi che in qualche modo mi sembravano in consonanza con alcune questioni sollevate dall’Isola. Questi filosofi sono i miei fantasmi che ho incontrato sull’Isola. Perché proprio loro? Di Heidegger ho già detto. Per quanto riguarda Deleuze e Derrida, sia l’uno sia l’altro si sono occupati, in momenti diversi, proprio di isole per elaborare una riflessione sullo statuto ontologico della realtà. Come se interrogarsi su che cos’è un’isola significasse interrogarsi nel modo più radicale su che cos’è la realtà o il mondo. Ciò significa che questi filosofi, per altro considerati difficili, si prestavano ottimamente a entrare con le loro questioni radicali nel mio testo mutante. Credo che quanto Wu Ming 1 ha scritto in Noi dobbiamo essere genitori a proposito di un certo modo di fare e concepire la letteratura valga oggi anche per un nuovo modo di fare filosofia: si tratta di portare dentro la popular culture un certo polemos filosofico per non ridurlo semplicemente a un gioco da tavolo accademico. Per parte mia cerco di portare una certa radicalità decostruttiva nell’ambito della pop culture. Perché credo abbia ragione Mark Taylor quando afferma che Derrida aveva sottovalutato il crescente impatto dei media e della cultura popolare.

C’è anche chi accusa Lost, 24, Battlestar Galactica, Prison Break, Dollhouse, ecc. di giustificare la tortura…

Niente di nuovo sotto il sole. C’era chi accusava Il Padrino di giustificare la mafia. Direi che è sempre buona regola di fronte alle opere di fiction attenersi all’idea che non ci dobbiamo aspettare storie con la buona morale incorporata. Altrimenti corriamo il rischio di introdurre anche nell’arte i politicamente o il moralmente corretto. Se c’è un’etica nell’ambito dell’arte, si può star certi che essa non ha nulla a che fare con l’idea di dover produrre messaggi edificanti. Poi naturalmente ciascuno è libero di preferire Il maresciallo Rocca a 24 o Lost. Per parte mia troverei artisticamente preoccupante non vedere in scena la questione della tortura e dei suoi dilemmi in opere d’arte del nostro tempo. E troverei francamente noiose opere che mostrassero quanto è brutta e cattiva la tortura. A un’opera d’arte chiedo che mi metta di fronte anche alla fascinazione che la tortura opera su di noi, alla tentazione che in certi contesti politici essa può suscitare. Mi pare che Lost e 24 facciano bene questo, proprio perché sono opere complesse. E poi non dimentichiamo che il rapporto tra un messaggio e colui che lo decifra non è un meccanismo semplicistico del tipo: vedi la tortura giustificata in una narrazione di finzione quindi giustificherai anche tu la tortura nella realtà. Per capire che tipo di fruizione sia oggi quella della cultura di massa basta vere che cosa accade in rete attorno alle serie tv: non si è mai vista un’interazione così attiva con l’opera d’arte.

C’è anche un pubblico, quello dei giovanissimi per esempio, a cui forse non vengono forniti tutti gli strumenti per confrontarsi con il “meccanismo semplicistico” della giustificazione della tortura…

Che strumenti dovrebbe avere? Chi decide quali dovrebbero essere? Dipende dall’età, dal genere, dal livello di cultura, dal tipo di formazione, dalla classe sociale, dal quoziente intellettivo? Credo che inoltrarsi su questa strada sia molto pericoloso: si arriva inevitabilmente ai comitati dei genitori, dei saggi o degli esperti, fino alla censura. Preferisco il rischio della libertà alla sicurezza della censura.

Il libro usa l’espediente dell’apostrofe, si rivolge a un lettore, anzi a una lettrice…

Sì, mi rivolgo per tutto il libro a un tu femminile (cosa insolita per un testo di filosofia) cui talvolta attribuisco idee e gusti diversi dai miei. All’inizio, nei miei appunti, il tu funzionava come una sorta di sparring partner – non pensavo che avrei mantenuto quella forma. Poiché però, al momento di dare forma al libro, non sapevo bene come orientarmi nel sistema complesso di Lost, ho scelto di farmi accompagnare e forse guidare da una figura femminile. Hai presente quando Kate aiuta Jack o Sawyer a seguire delle tracce nella foresta? Ecco, anche io avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse. Non volevo creare mappe che semplificassero la complessità, così ho scelto qualcuno che mi aiutasse a seguire delle tracce. Perché un tu femminile? Me lo sono chiesto anch’io e anche il mio editor (una donna, Cristina Palomba) che subito non era convinta di questa scelta. Non so perché, ma il fantasma del tu femminile era la dimensione più naturale per la mia scrittura in quel momento. A un certo punto questa forma mi si è imposta. E l’ho accolta senza nessun problema, tanto più che penso, proprio come Derrida, che i filosofi a venire siano donne.

Articolo pubblicato su Panorama.it (quando ancora mi ci facevano scrivere…)