
Manuel Mujica Lainez
Attorno alla palizzata sconnessa che incorona il terrapieno di fronte al fiume, i falò degli indios crepitano giorno e notte. Nell’oscurità senza stelle incutono ancor più paura. Gli spagnoli, appostati cautamente tra i tronchi, vedono al fulgore dei roghi strecciati dalla follia del vento le ombre danzanti dei selvaggi. Di tanto in tanto, un soffio d’aria gelido, infilandosi nelle capanne di fango e paglia, porta con sé le urla e i canti di guerra. Ed ecco che ricomincia la pioggia di frecce incendiarie le cui comete illuminano il paesaggio spoglio. Durante i momenti di tregua i lamenti del Governatore, che non abbandona il letto, alimentano il terrore dei conquistadores. Avrebbero voluto portarlo via da lì; avrebbero voluto trascinarlo sulla sua portantina, mentre brandisce la spada come un demente, fino alle navi che beccheggiano al largo della spiaggia di ciottoli, spiegare le vele e fuggire da quella terra maledetta; ma l’accerchiamento degli indios non lo consente più. E quando non sono le grida degli assedianti o i lamenti di Mendoza, è l’angoscioso supplicare di quelli rosi dalla fame, il cui gemito cresce come una marea sotto le altre voci, lo sferragliare delle raffiche di vento, gli spari intermittenti degli archibugi, lo scricchiolio e il crollo delle costruzioni in fiamme.
Così sono trascorsi diversi giorni; molti giorni. Ormai non li contano più. E ora non resta nemmeno più una crosta di pane da mettere sotto i denti. Tutto è stato arraffato, sradicato, tritato: per primo le magre razioni, poi la farina putrida, i topi, gli scarafaggi immondi, gli stivali bolliti di cui hanno succhiato il cuoio disperatamente. Adesso ufficiali e soldati giacciono dappertutto, accanto ai fievoli fuochi o vicino alle palizzate difensive. È difficile distinguere i vivi dai morti. Continua a leggere →
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