Gens Italica

A grande richiesta, pubblichiamo anche qui il racconto di Natale di Kaizen g uscito sul blog Resistenze in Cirenaica. Buon 2017.

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Il tenente Lorusso fissava lo sguardo spiritato nello specchio del bagno. Il rado ciuffo, che nei momenti di forma migliore gli rendeva meno avvilente la calvizie e in quelli di più ardito ottimismo fascista lo convinceva di avere ancora i capelli, stavolta si ergeva arruffato e triste sulla sommità del cranio. Si asciugò entrambe le mani con cura sul cotone rigato della canottiera tesa sul ventre gonfio, poi avvicinò il volto alla propria immagine riflessa. Uno schiocco risuonò come una scudisciata rimbalzando sull’intonaco delle quattro pareti raccolte della stanza. La florida guancia destra gli si tinse dell’impronta scarlatta delle dita.

“Buon Natale minchione.” Continua a leggere

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Il Salone Dorato (Manuel Mujica Lainez)

Manuel Mujica Lainez

Sono cinque giorni che la signorina Matilde ha smesso di esistere e il salone dorato nel quale occupava così poco posto, tremula con il suo eterno ricamare nell’angolo delle vetrine, sembra ancora più enorme, come se la sua fragile assenza accentuasse la solitudine degli oggetti riuniti lì, convocati lì misteriosamente per quel congresso della bruttura di lusso che si tiene nelle grandi sale vecchie. Eppure niente è cambiato di posto. Niente è cambiato nel salone dalle cimase rampanti, nel corso degli ultimi quindici anni, da quando in esso hanno sistemato il letto impossibile della signora Sabina, interamente decorato con dipinti al Vernis Martin, e da quando in esso si è installata, eretta sui cuscini, la vecchia signora. Tutto è identico: il camino di marmo e bronzo, i bronzi e i marmi distribuiti su tavoli e consolle, le sciocche porcellane delle vetrine; il tendaggio damascato verde che cinge il diadema vittoriano della mantovana; i terribili mobili, invasori, sempre pronti allo sgambetto traditore, che alternano le dorature ai velluti e di cui spalliere e profili si incavano, si curvano, si increspano e folleggiano con la prolissità degli ornamenti bastardi.

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La Fame (Manuel Mujica Láinez)

Manuel Mujica Lainez

Attorno alla palizzata sconnessa che incorona il terrapieno di fronte al fiume, i falò degli indios crepitano giorno e notte. Nell’oscurità senza stelle incutono ancor più paura. Gli spagnoli, appostati cautamente tra i tronchi, vedono al fulgore dei roghi strecciati dalla follia del vento le ombre danzanti dei selvaggi. Di tanto in tanto, un soffio d’aria gelido, infilandosi nelle capanne di fango e paglia, porta con sé le urla e i canti di guerra. Ed ecco che ricomincia la pioggia di frecce incendiarie le cui comete illuminano il paesaggio spoglio. Durante i momenti di tregua i lamenti del Governatore, che non abbandona il letto, alimentano il terrore dei conquistadores. Avrebbero voluto portarlo via da lì; avrebbero voluto trascinarlo sulla sua portantina, mentre brandisce la spada come un demente, fino alle navi che beccheggiano al largo della spiaggia di ciottoli, spiegare le vele e fuggire da quella terra maledetta; ma l’accerchiamento degli indios non lo consente più. E quando non sono le grida degli assedianti o i lamenti di Mendoza, è l’angoscioso supplicare di quelli rosi dalla fame, il cui gemito cresce come una marea sotto le altre voci, lo sferragliare delle raffiche di vento, gli spari intermittenti degli archibugi, lo scricchiolio e il crollo delle costruzioni in fiamme.

Così sono trascorsi diversi giorni; molti giorni. Ormai non li contano più. E ora non resta nemmeno più una crosta di pane da mettere sotto i denti. Tutto è stato arraffato, sradicato, tritato: per primo le magre razioni, poi la farina putrida, i topi, gli scarafaggi immondi, gli stivali bolliti di cui hanno succhiato il cuoio disperatamente. Adesso ufficiali e soldati giacciono dappertutto, accanto ai fievoli fuochi o vicino alle palizzate difensive. È difficile distinguere i vivi dai morti. Continua a leggere