Alice in Chains – Jar of Flies (Columbia1994)

Reduce dai trionfi internazionali di Dirt, la band registra sette brani in sette giorni. Nasce il terzo Ep degli Alice in Chains, stampato in fretta e furia per evitare la concomitanza con l’allora attesissimo Ep acustico degli Stone Temple Pilots.
Il nome del disco deriva da un “geniale” esperimento compiuto, negli anni della high school, da Jerry Cantrell. Due barattoli pieni di mosche: nel primo c’era del cibo, nel secondo non c’era nulla. Le mosche senza cibo, “inaspettatamente”, si mangiarono a vicenda. L’esperienza del mancato entomologo è dunque tutta qui: non esistono significati segreti a un titolo altrimenti piuttosto interessante.
Ballate alternate a sfuriate puramente rock: domina, tuttavia, un senso di isolamento e di disperazione che era estraneo alle precedenti canzoni degli Alice. Non c’è più traccia di luce, all’improvviso, neppure nella rabbia e nel disincanto: c’è solo l’accettazione d’un baratro, e un dolore lancinante e pervasivo.
Chiarissimo, in questo senso, il messaggio di Layne Staley, sin dai primi versi dell’ouverture del disco, “Rotten Apple”. “Innocence is over / over (…) Confidence is broken / broken / Sustenance is stolen/ stolen”. Si ripete, come in un mantra, la ragione della propria disfatta, e si denuncia il torpore dell’immobilità. Semplicemente schiacciante.
C’è un capolavoro, in “Jar of Flies”: parlo, ovviamente, di “Nutshell”, una delle più belle ballate degli anni Novanta. Non c’è una nota, e non c’è una parola fuori posto. Tutto converge in un equilibrio perfetto. Il canto della deriva.
Il malessere di Staley è terribile. “We face misprinted lies / We face the path of time/ and yet I fight / this battle all alone / No one to cry to / No place to call home”. E questo micidiale senso di isolamento risulta oggi, purtroppo, la tragica profezia di quelli che furono gli ultimi anni del cantante: chiuso in casa, senza aprire più la porta a nessuno, distrutto dalla dipendenza dalle droghe e annichilito da una serie di disgraziati rovesci esistenziali, Staley ha finito di vivere combattendo da solo, a tutti gli effetti. Gli “amici” l’hanno trovato morto a circa, si presume, due settimane dal decesso.
Così si conclude Nutshell. “If I can’t be on my own / I’d feel better dead”.
Dallo sconforto di “Nutshell” alla prima concessione rock dell’ep: “I stay away”. I cultori di “Dirt” riconoscono finalmente le sonorità e la rabbia degli Alice, che si temevano compromesse dalla depressione. “No Excuses” è una cavalcata nella consapevolezza: ritmi più sostenuti, senza mai eccedere e senza mai sconfinare nel disordine; ampie concessioni alla melodia dominante, mentre magnetico s’impone il timbro di Layne Staley.
C’è una favoletta strumentale, “Whale & Wasp”, con qualche concessione (incredibile) alla solarità; segue “Don’t follow”. Cantrell si congeda dall’ascoltatore con una malinconia di chitarre e fisarmoniche, che nella seconda parte ammette daccapo un picco di conflittualità e di aggressività che altro non è che vitalità: quella vitalità che, già vacillante, ora scivolava via dalle creazioni di Layne Staley, costrette in un’immobile contemplazione della morte, e del niente. (Ginafranco Franchi Lankelot)