Morte di un giallista bolzanino, il podcast

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Da oggi è disponibile sul sito di RAI ALTO ADIGE la prima puntata del podcast, anzi del mockcast, MORTE DI UN GIALLISTA BOLZANINO, prodotto da Studio Banshee e Riff Records per la RAI con il sostengo della Provincia Autonoma di Bolzano – Alto Adige – Cultura Italiana. Il podcast è stato scritto da Jadel Andreetto e Guglielmo Pispisa, le musiche e la produzione sono di Stefano d’Arcangelo e Stefano Campetta.

Le puntate saranno disponibili ogni giovedì dopo la diretta della trasmissione Zeppelin condotta da Paolo Mazzucato.

Buon ascolto e restate sintonizzati!

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Back in yellow

La strana coppia – che è anche metà di : Kai Zen : – è tornata!

La parola amore uccide (Rizzoli) è in libreria…

Tutta quella brava gente

Compagni, cittadini, fratelli, partigiani…

TUTTA QUELLA BRAVA GENTE è in libreria!

Da quasi un decennio riposava nel nostro cassetto un romanzo. 
Jadel e Guglielmo lo hanno cominciato quasi per gioco. Volevamo scrivere un giallo, uno di quelli classici che più classici non si può e ambientarlo a Bolzano. 

Lo hanno abbozzato, ma poi la vita li ha portati altrove, fino a quando qualche anno fa lo hanno ripescato dagli archivi. Hanno tenuto l’ambientazione, i personaggi, una parte di trama e buttato alle ortiche gran parte della classicità. Giallo è giallo, per carità, ma come al solito si sono fatti prendere la mano e gli sono scappate alcune ibridazioni selvagge. Le hanno tenute a bada, ma non è stato semplice.  

Oggi, dopo una vicenda editoriale che ha sorpreso noi per primi, quel romanzo approda finalmente in libreria per i tipi di RIzzoli. Il dinamico duo lo ha firmato con lo pseudonimo  Marco Felder. Uno nom del plume scelto quasi (quasi. eh) per caso che se no quelli del marketing si suicidavano, ma dietro quel nome da campione di slittino del Liechtenstein ci sono loro due al 100%: i vostri amichevoli : Kai Zen : di quartiere o meglio 2/4 di : Kai Zen :.

Il titolo? Già, il titolo… Quelli del marketing avevano da dire anche su quello e si sono battuti fino allo stremo per un classico titolo “un qualcosa di qualcosa”, avente presente? Be’, per una volta abbiamo lasciato che si suicidassero e abbiano optato per “Tutta quella brava gente” che riprende la citazione in esergo presa da una canzone di Nick Cave & the Bad Seeds che ci ha ispirato una parte della storia: Jubilee Street.

Se avete voglia di leggere un giallo poco ortodosso ambientato nella “ridente” cittadina di Bolzano, oggi è un buon giorno per andare in libreria.
In ottobre e novembre saremo in giro per la penisola a presentarlo: stay tuned.
PS il romanzo naturalmente è in copyleft.


All those good people down on Jubilee Street
They ought to practice what they preach
Here they are to practice what they preach
Those good people on Jubilee Street

 

Spauracchi 1

Tempo d’estate, tempo di feuilleton… Era il 2005 quando lanciammo il romanzo totale gothic western ambientato in Sudtirolo “SPAURACCHI”… forse il migliore di sempre… Rieccolo a puntate:

Novembre 1866, Nei dintorni di Maso Corto

“C´è qualcosa nel ghiaccio…” I bambini accorsero curiosi al richiamo di Matthias, affacciato al vecchio pozzo nel bosco. “È vero. Ma cos´è?” Circondavano il cilindro di pietre lanciando pigne e ciottoli sulla superficie dura e trasparente. Un rumore alle loro spalle li fece voltare di scatto. “Papà! Guarda, c´è qualcosa nel pozzo.”
Il boscaiolo si avvicinò al figlio e agli altri bimbi con un sorriso bonario sulle labbra. Quando guardò nel pertugio, spostò la testa da un lato per scrutare meglio la forma scura nel ghiaccio. Poi si voltò, nervoso, aprendo le braccia per allontanare i ragazzini. “Via di qui. Andate in paese a chiamare il borgomastro, presto.”
Come una crisalide nell´ambra, un corpo rannicchiato giaceva nel gelido cristallo.

Febbraio 1867, boschi della Val Venosta

L´uomo accucciato fece scivolare il fango tra le dita valutandone la consistenza, poi si pulì la mano strofinandola sui pantaloni corti di pelle. Si alzò in piedi, scostando dal volto le piume del cappello.
A ogni passo una collana di denti di maiale tintinnava sul petto. “È passato di qui. Non più di otto,dieci ore fa.” Le tre figure attorno annuirono e ripresero il cammino con le alabarde in spalla. Mentre risalivano il ripido sentiero, l´uomo in coda si fermò un attimo a osservare il cielo, poi scosse il capo.
“Cosa c´è Hans?” Qualcuno aveva notato il gesto.
“Non sono convinto, Sigfried. Non può essere stato lui. Lo conosco da troppo tempo.”
“Tutti noi pensavamo di conoscerlo.” Sigfried allungò il passo, lasciando Hans a guardarsi intorno. Gli sembrava di aver visto un bagliore tra il fitto della boscaglia.
Le unghie dure, irregolari e affilate strisciavano sulla lama. Nascosto tra le fronde, poteva osservare il Saltner dai capelli corvini scrutare i boschi, mentre gli altri tre arrancavano più avanti. Le pesanti giacche di pelle marrone contrastavano col grigio delle rocce. Poteva quasi sentirne l’odore. Per un istante gli parve di incrociare il suo sguardo. Poi si alzò in piedi e si volse, scomparendo silenzioso nella macchia di abeti. Corse per un lungo tratto, evitando con meccanica precisione i rami appuntiti. Sembravano trappole messe apposta per graffiare il viso e le vesti di chi si fosse avventurato nel bosco, ma non riuscivano nemmeno a sfiorare il fuggitivo, Der Geist, come di recente era stato ribattezzato. Arrivato al limitare del bosco, poco prima di un dislivello scosceso, si fermò un attimo per prendere fiato. Appoggiato a un albero, guardò verso la conca sottostante. Gli occhi chiari ne accendevano il volto sporco di terra, lampeggiando come lame nell’oscurità. Ristette alcuni minuti, immobile. Strinse le pupille nel tentativo di mettere a fuoco il casolare, alcune centinaia di metri più in basso. Una costruzione di pietra e legno, lineare e ben rifinita, con accanto un capanno più rozzo ma assai ampio. Due sillabe gli affiorarono alle labbra, senza che quasi se ne accorgesse, la voce ridotta a un sibilo dall’inutilizzo delle corde vocali. Da mesi non parlava più con nessuno.
“Pe-ter.”

Settembre 1866, in una falegnameria alle porte di Parcines

“Ecco vedi, basta alzare qui e il gioco è fatto.” L’uomo con gli occhiali azionò la leva al centro del marchingegno. Non appena il rullo agganciato alla tastiera concluse il giro, Martin il guardaboschi estrasse il foglio dal macchinario e lo osservò in controluce. “Stupefacente… i caratteri sono perfetti, non c’è la minima sbavatura. Come hai detto che si chiama?”
“Macchina per scrivere.” Rispose il falegname, pulendosi le lenti sul grembiule.
“Macchina per scrivere. Macchina per scrivere” fece eco Gottlieb, il nano, che scomparve dietro la porta trascinando con sé una borsa piena di attrezzi.
Il Saltner lo guardò uscire, poi sorrise. “Che razza di aiutante ti sei trovato? Comunque prevedo grandi fortune per te, Peter. Alla fiera di Vienna la acclameranno come l’invenzione del secolo.”
“Io mi accontenterei di un bel gruzzoletto. Tutti fanno affari a Vienna…”
Martin strinse fra le mani la fibbia di ferro sopra i pantaloni corti. ”Questa l’ho presa da un polacco l’anno scorso, in Austria. Cinque fiorini…”
“Si fanno affari con i forestieri, è vero. Due anni fa sembrava che tutti volessero la mia Mitterhofer n°1, la prima macchina che ho costruito. Danesi, americani, perfino i messi dell’imperatore: si dice che Francesco Giuseppe sia generoso con i sudditi che dimostrano inventiva.”
“Con i potenti! Con quelli sì che è generoso…”
Il falegname abbozzò un sorriso. “Ancora problemi con il Vicario?” Pose la mano sulla spalla del Saltner per consolarlo. Lui scosse il capo, lisciandosi i baffi.
“Stavolta ha superato i limiti. Ho pizzicato ancora i suoi figliastri nella vigna di Müller, mentre si portavano via tre ceste di fragolino… Li ho presi per le orecchie entrambi, li ho fatti spogliare e li ho spediti a casa con il sedere all’aria. Dico io, sono il Saltner, lo posso fare. E invece il giorno dopo il Vicario mi viene a cercare con le guardie, porci servi del denaro, e mi costringe a pagare una multa di trenta fiorini per abuso dell’esercizio di guardavigne al di fuori dei confini assegnati. Nella notte, l’infame si era comprato i filari dove avevo colto in flagrante i ragazzi, che sono proprio al confine. Ha cambiato le mappe delle proprietà e anticipato la data di acquisto di due giorni. Il tutto avallato dal sigillo dell’Impero. Così adesso risulto io l’intruso. Figlio d’un cane. non finisce qui.”
Peter Mitterhofer tirò un lungo sospiro, era abituato a queste storie. Da sempre aveva vissuto sulla pelle i soprusi del potente di turno. Persone senza scrupoli disposte a tutto. Günther Fromm, il Vicario, ne era un esempio: aveva fatto internare il fratello Karl per poter intascare la sua fetta di eredità. Un giovane ingenuo e un po’ bizzarro ma di buon cuore, finito in manicomio senza un perché. Mitterhofer conosceva bene Karl: grazie alle sue grandi doti di falegname lo aveva preso con lui in bottega, fianco a fianco ogni giorno per parecchi anni. Poi l’orribile fine, imprigionato dal fratello arrivista e meschino. Maledetto Fromm.
“Porta pazienza, Martin. Tra qualche mese avrai finito il turno nei campi e queste sventure saranno solo un ricordo sbiadito. Allora potremo farci sopra una grassa risata. E una sana bevuta.”

Febbraio 1867

Il laboratorio di Peter Mitterhofer era una costruzione tozza e squadrata, posta a pochi metri dall’abitazione padronale. Mastro Peter aveva l’abitudine di recarvisi anche dopo cena, per spendere qualche ora a lavorare alla luce delle lampade a olio. Pochi tocchi di cesello per conciliare il sonno. La serata era rigida e ventosa, Gottlieb il nano si era appena congedato ritirandosi nella stamberga che il padrone gli aveva affittato, appena fuori il recinto del maso. Dopo aver salutato l’aiutante con un cenno, il falegname si affrettò a entrare nel capanno per sottrarsi alle sferzate della tramontana.

Richiusa la porta alle spalle si addentrò nel buio, cercando di accendere il lume sul tavolo da lavoro. All’improvviso, una vibrazione nell’oscurità lo fece sobbalzare. Afferrò uno degli scalpelli da legno, il primo a portata di mano, e si girò in direzione del rumore. “Chi c’è?”
Il movimento fu rapido e secco come il vento. Mitterhofer avvertì appena un dolore al polso, e subito si rese conto di essere stato disarmato. La mano destra gli formicolava; le dita, rese insensibili dal trauma, stringevano il vuoto. Poi una massa scura lo spinse sul tavolo, premendogli uno straccio polveroso sulla bocca. Infine un sibilo gli giunse all’orecchio, come se arrivasse da un’altra dimensione: “Ma-stro. Pe-ter.”
Riconobbe subito la voce, anche se meno viva e squillante di come la ricordava. Rilassò appena i muscoli, l’aggressore si allontanò verso la finestra.
Der Geist aprì un’anta, di poco, facendosi illuminare da un raggio di luna. La luce grigio argento ne disegnò il profilo marcato contro il buio. Il volto triangolare, aguzzo, incorniciato dai capelli lunghi, resi stopposi dallo sporco e dall’umidità. Il corpo robusto ma agile, coperto da una vecchia blusa di pelle scamosciata, zuppa di fango. Un bagliore si riflesse sulla fibbia del cinturone, sopra i Lederhosen.
Rimase così, immobile, respirando piano e fissando il vecchio artigiano. Mastro Peter socchiuse gli occhi lasciandosi cadere su una sedia. Poi parlò. “Non ho mai creduto che tu fossi un assassino. Tanto per mettere le cose in chiaro…” Si fermò un attimo, massaggiandosi il polso ancora dolorante, quindi riprese. “Sono venuti a interrogarmi la sera stessa del ritrovamento. Non mi hanno chiesto della giovane uccisa, solo se ti conoscevo, se sapevo dei tuoi problemi con Günther… Non sapevo nemmeno fosse sua figlia, quella poveretta.

Io gli ho risposto: «Chi non ha mai avuto problemi col Vicario?», ma non ho detto altro. E non ce n’è stato bisogno, in molti sapevano.”

Der Geist continuava a fissarlo senza alcuna espressione. Silenzioso. Mitterhofer non aveva paura ma si sentiva a disagio. “Hai fatto male a sparire. Non trovandoti, scaricheranno la colpa su di te. Era la figlia di un uomo importante, il borgomastro ha dato molta attenzione al fatto. Tutti i Saltner della valle sono stati incaricati di darti la caccia. Chi non c’è ha sempre torto…”
Il fuggitivo fece un movimento impercettibile, come un piccolo sbuffo. Poi l’anta si richiuse e la sua figura sparì nell’oscurità. Mitterhofer sentì ancora quel rantolo disumano vicino all’orecchio: “A mo-do mio, Ma-stro Pe-ter. A mo-do mio.”
Un flusso di vento gelido investì il viso dell’artigiano. Der Geist era già scomparso.

LA ‘NDRINA DI VIA MUGGIA

Al Livello 57 eravamo una grande tribù, nel senso antropologico del termine, divisa in vari clan per lo più di origine geografica: Sicilia, Puglia, Alto Adige, Veneto, Lombardia, Piemonte, Toscana e dulcis in fundo, Calabria. Quello calabrese era diventato nel tempo uno dei clan più numerosi all’interno del centro sociale; si sa come operano i calabresi (ma è una teoria che si potrebbe allargare agli italiani e all’essere umano in genere), una volta arrivati i primi e dopo essersi ambientati bene, qui cumpà si mangia si beve si balla e si tromba come ‘nu puerco hanno incoraggiato altri conterranei a stabilirsi in loco. Per inciso: il sottoscritto ha sposato una calabrese, passa le sue vacanze a Crotone da parecchi anni ormai, per cui si sente in diritto di parlare di questa terra e dei suoi abitanti senza avere il timore di essere preso per razzista o filonordista. Per di più mia mamma è di Caltanissetta per cui non sono neppure un pulentun. Non sono né carne, né pesce, sono un ibrido, uno scherzo della geografia latitudinale, sono un po’ come Mary Per Sempre, però un po’ meno Mary…Era incredibile e anche un pò inquietante vedere all’opera questo clan organizzato, sia come bigliettai e bodyguards improvvisati all’ingresso del Livello sia come servizio d’ordine durante le manifestazioni di piazza. Nel primo caso ho visto più di una volta avventori alticci e minacciosi diventare pulcini docili e spennacchiati dopo una chiacchierata chiarificatrice con il clan dei calabresi; “Cumpà ca d’è ca vo? E statt tranquill, non fare innervosire i ragazzi da retr’ ch’è meglio!” “Chisto’cca lo ripassiamo nella malta se un la smette!” “Vedi che i miei compari sono andati a prendere le pale che hanno una buca da scavare!”, frasi del genere, in amicizia, un confronto leale fra intellettuali di un certo calibro. Nel secondo caso devo dire invece che, con mia somma sorpresa, ho visto celerini incazzati, con la bava alla bocca (si diceva che li tenessero in gabbia per qualche giorno prima di una manifestazione), ho visto questi poliziotti, dicevo, indietreggiare e anche di corsa con la coda fra le gambe di fronte a quella masnada di genti del sud assetati di divise azzurre (in molti casi erano presenti anche pugliesi e siciliani lontani parenti di quel Terron Power che fece faville negli anni settanta nei movimenti di sinistra estrema del capoluogo felsineo). Non che la cosa mi piacesse particolarmente, anzi. Però in quegli anni sapere di avere un po’ le spalle coperte in situazioni pericolose mi faceva sentire vigliaccamente più forte, al sicuro. È come la strana sensazione che si prova mentre si guarda un film di serie B dove il cattivo perpetra ingiustizie a go-go e alla fine arriva il buono, grosso e incazzato, e lo gonfia come una ruota di un camion. Non si dovrebbe fare ma si fa, e si è felici, appagati. Chissà se Guccini quando cantava “Trionfi la giustizia proletaria” si riferiva anche a queste situazioni, a eroi a metà fra Bud Spencer e Pietro Micca. Purtroppo però il clan dei calabresi spesso esagerava. Forse cosciente della propria forza e coesione di gruppo, era solito degenerare in azioni che poco avevano a che fare con la giustizia. Ricordo un fatto in particolare. Una domenica mattina, alla fine di un Rave Party, si era tutti ubriachi e stanchi (più stanchi che ubriachi) e ci si apprestava a terminare la festa iniziata la notte prima e chiudere quindi il centro sociale per il riposo domenicale. Chi era seduto dietro il bancone del bar, chi su una panchina e si prendeva il primo sole tiepido del mattino, chi sonnecchiava appoggiato al muro, insomma si era un po’ tutti in quel momento tipico dell’ ancora cinque minuti e poi me ne vado a casa che mi fischiano le orecchie e ci vedo doppio e minchia! Me la dormo tutta, faccio un dritto fino a lunedì, si era a quel punto, dicevo, quando arrivarono tre ragazzoni visibilmente ubriachi e molesti. Cominciarono a importunare una delle bariste dietro il bancone, lanciandole pesanti apprezzamenti. Nel frattempo uno di loro, credendo di non essere visto, allungò una mano dietro il frigobar rubando una bottiglia di vodka ancora sigillata. Non contento e senza un apparente giustificato motivo scagliò un bicchiere di plastica pieno di birra in faccia a Wally, uno dei calabresi. Era chiaro, non era venuti per fraternizzare, ma scegliere un avversario come Wally per attaccar briga fu certo una decisione per nulla ponderata da parte loro. Wally era un catanzarese di un metro e novanta, spalle larghe e forza bruta(e pensare che i calabresi sono pericolosi anche in versione mignon figuriamoci un calabrese gigante). La leggenda narra che una volta, incazzato come una jena con la sua ragazza, ruppe con la sola forza delle mani il lucchetto che teneva chiuso il motorino della sfortunata e lo gettò dentro un bidone dell’immondizia. Non era un cliente facile per il trio dei rompiballe. Lui li guardò tutti e tre negli occhi, con apparente calma si asciugò il viso con un lembo della maglietta, poi tirò un urlo disumano (credo di aver visto l’ugola vibrare fuori dai denti), una sorta di richiamo della foresta. In men che non si dica Rocky, Manona e Quentin (altri tre calabresi di quelli giusti) sbucarono fuori dal nulla. Wally urlò ai compagni qualcosa in dialetto (a me risultò incomprensibile ma credo fosse un breve riassunto sulla situazione venutasi a creare e sul come agire di conseguenza). In un attimo il quartetto di lupi silani si lanciò sul trio di intrusi. Pim  pum pam, calci e pugni, rumore di ossa che si rompono, i tre in vertiginosa fuga. Wally e i suoi dietro. Io e i pochi altri ragazzi del centro rimasti, dietro ai nostri compagni calabresi. Manona e Quentin raggiunsero di nuovo il trio che nel frattempo stava cercando di mettersi in salvo salendo in auto. Niente da fare, Wally saltò a piedi nudi sul cofano della macchina e a suon di calci disintegrò il parabrezza. Allungò un braccio all’interno dell’abitacolo e tirò fuori i due sventurati rifugiati sotto i sedili anteriori. Purtroppo per loro non era finita, solo il terzo che era riuscito a rintanarsi sotto il sedile posteriore fu risparmiato dalla furia ionica. Per alcuni interminabili minuti nessuno riuscì a fermare quella follia, poi alcuni di noi si resero conto che una reazione giustificata si stava trasformando in un linciaggio dai contorni quasi biblici e decidemmo di provare a fermarli. “Ragazzi basta, così li ammazzate!” Fu questa la frase che fece suonare il gong di fine-incontro. Due ragazzi giacevano per terra e si lamentavano, il terzo gridava quasi sottovoce basta basta, nascosto sotto i sedili  dell’auto, ormai semi distrutta. E in tutto questo casino Quentin era pure riuscito a rubarsi l’autoradio e le  casse montate al suo interno. Gli aiutammo a rialzarsi, montarono in macchina senza dire una parola e partirono, presumo in direzione S. Orsola, con andatura storteggiante, gnic-gnic, causa ruote deformate. Ero allibito, sconcertato anche se un po’ mi veniva di ridere. Più avanti avrei capito quanto pericoloso poteva essere avere come compagni di vita e d’avventura dei personaggi del genere, ma questa è un’altra storia. To be continued…

Ispirarsi alla storia 8

a-saltnerIl Saltner dell’Alto Adige

Qualche anno fa, era il 2005, collaborammo con la provincia di Bolzano per dare vita ad un Romanzo Totale che avesse un’ambientazione altoatesina. Era la quarta volta che si realizzava un Romanzo Totale in rete, la seconda in cui noi Kai Zen partecipavamo alla stesura come promotori e coordinatori; per di più la metà di Kai Zen ha avuto i natali in Sud Tirolo e quindi ci premeva fare le cose per bene, come quel caro amico di catodica memoria, il signor Locatelli. Io, in quanto “storico” dell’ensemble narrativo, mi preoccupai di raccogliere le informazioni e i dettagli storici che potevano risultare utili allo scopo. Mi imbattei, fra gli altri, in una figura che aveva avuto il ruolo di poliziotto privato nel passato della regione, il Saltaro o Saltner in tedesco, un personaggio che, vestito come Toro Seduto, si aggirava per le grandi proprietà fondiarie armato di pistola e alabarda cercando di tenere lontani da queste terre ladri e estranei. Mi incuriosì molto scoprire l’esistenza di un così particolare personaggio nella mia terra natia. Approfondendo il discorso scoprii anche che l’origine del nome è longobarda, infatti la zona del Triveneto era parte integrante del regno longobardo che si estendeva a macchia di leopardo in Italia fra il 500 e il 780  d.c. e il suo ruolo era inizialmente quello di guardiaboschi. Col tempo le sue funzioni si allargarono divenendo custode del territorio comunale prima e guardia delle strade, degli acquedotti e dei canali poi. I suoi compiti cambiavano da provincia a provincia anche se il nome restava lo stesso. Col tempo in alcune zone del Trentino alto Adige sparì questa figura di controllore delle terre, oppure venne sostituito da poliziotti provinciali o servi del proprietario terriero armati. Ricomparve nella valle dell’Adige, in special modo nella conca di Merano, col nome di Saltner intorno al 1285 d.c. e indicava generalmente le guardie campestri e i guardiani dei vigneti durante il periodo di maturazione dell’uva. Nel libro “Le pietre del giudizio” Marius De Biasi ne fa una dettagliata descrizione: “…Il costume indossato abitualmente era quello tipico dell’agricoltore, con pantaloni di pelle corti, le ginocchia libere, particolari calzettoni che ricoprivano solo i polpacci, con calzini corti ai piedi e con scarpe nella cui suola erano state infilate delle borchie per prolungarne la durata. Di domenica era vestito meglio: portava un cappello con piume di uccello e code di volpi e scoiattoli; al collo indossava una o più collane di denti di maiale ed ossa di animali, disposti in maniera tale da provocare u n continuo tintinnio durante il movimento. In mano stringeva un’alabarda e alla cintura portava una pistola a due canne. Il Saltner la usava in due occasioni: il sabato sera, quando dopo il suono delle campane, sparava per due volte nell’aria per segnalare la sua presenza, oppure in caso di necessità per richiamare l’attenzione dei vicini.Di domenica o nei giorni festivi si recava a messa,ma con quell’abbigliamento gli era proibito entrare all’interno della chiesa e al termine delle cerimonie religiose dopo la benedizione del prete doveva allontanarsi dal luogo prima di venir avvicinato dai fedeli. Durante il lavoro segnalava la propria presenza con particolari segnali ben visibili che avvertivano gli intrusi di non oltrepassare il confine o di non percorrere il sentiero; se qualcuno veniva sorpreso nel campo, doveva pagare al proprietario del terreno una multa,altrimenti, in caso di rifiuto,veniva portato davanti alle autorità giudiziarie e condannato.” Fra i simboli usati per tenere alla larga i male intenzionati c’era anche una mano di legno infilata in cima a un palo recante scritte del tipo “state alla larga” oppure “qui ci sono io che controllo”. Qualcuno sostiene anche che in certi periodi particolari della storia gli fosse concessa licenza di uccidere. Con queste prerogative mi venne naturale pensare che un tale personaggio fosse perfetto per dar vita a un racconto oppure a un romanzo. E in effetti non mi sbagliavo, alla fine dell’anno l’esperienza del Romanzo Totale ambientato in alto Adige era conclusa e aveva dato vita a un bel racconto uscito in forma cartacea col nome di “Spauracchi”, edito dalla Bacchilega editrice. L’indiano che parla tedesco ci aveva portato fortuna, augh!  

Bollettino della brigata partigiana Andreas Hofer, 20 aprile 2013

Kriegbericht der Alpenjäger-Abteilung Andreas Hofer / Foliet de vera dla Brigade partisan André Hofer

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La guerra di Teo

Cazzo se Ludwig aveva ragione! Io nelle elezioni un po’ ci speravo, lui mi guardava con quel mezzo sorriso scettico, senza dire niente. Qui non era l’unico ad aver capito. Trenta secondi dopo che la sinistra aveva vinto, i fascisti si sono ripresi il paese con le armi. Bastardi infami, ve ne accorgerete di chi siamo!
Io non avevo capito niente ma qui sì, e infatti i ragazzi non hanno perso tempo.
Ci siamo raccolti tutti all’Haderburg, il castello diroccato di Salorno. Una volta era un itinerario turistico, ma ora no. Tutta la Brigata c’era, un botto di gente, ma gli accordi sono stati presi nel silenzio più assoluto. Poche ore dopo, metà di noi è venuta giù da Monte Alto a est e l’altra metà da Monticello a ovest. Ci sono due postazioni militari nella strettoia fra i monti, una di faccia all’altra. In tutto una ventina di soldati. Le abbiamo aggredite all’unisono, urlando e sparando. Tre minuti, massimo cinque, ed era tutto finito.
Abbiamo fatto saltare le frontiere a Salorno. La valle dell’Adige diventa una striscia stretta fra le montagne ma strategica, e adesso la controlliamo noi. Il Tirolo e nostro, fascisti di merda. Venite a prendervelo se avete fegato. Che poi anche se ce lo avete, ve lo strappiamo e ce lo mangiamo crudo.
SUDTIROLO AUTONOMO E LIBERTÀ!