Noi siamo solo i parafulmini

Sono passati due mesi dalla chiusura della prima fase della Campagna Urbana a cui abbiamo partecipato in quel di Lecce. Quello che è successo è stato emozionate e stordente. Vedere le storie che abbiamo innescato e che i partecipanti hanno fatto detonare, trasformandole in azioni concrete sul territorio è stato da togliere il fiato. Quello che segue è un report a uso interno che abbiamo fatto qualche giorno dopo a bocce fredde. Ora lo rendiamo di pubblico dominio perché ci sembra che oggi, come sempre, la potenza della narrazione sia un’arma formidabile.

Quando nascono le storie? Come nascono e perché lo fanno? Con questa domanda, fatta la sera prima di cominciare il laboratorio di scrittura collaborativa, lasciamo i partecipanti in sospeso. Alla questione daremo una risposta solo alla fine del workshop, a racconti terminati.

La domanda che invece riserviamo per noi è: scriveranno? Scriveranno solo se ne avranno la necessità. È una risposta che conosciamo e sappiamo altrettanto bene che non sempre questa necessità è presente e, per quanto possa essere stimolante il lavoro “in aula”, se manca l’innesco la scrittura non detona. Continua a leggere

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Epilogo Criminale

Tempo fa le Officine Wort ci hanno chiesto di partecipare al romanzo totale “Chi ha ucciso Lucarelli” con un epilogo “fuori concorso”. Quell’esperimento è poi diventato un libro pubblicato dall’indomita Bacchilega di Imola. La tentazione di innescare un Nastro di Möbius e di darsi al pastiche letterario fu grande, come la confusione sopra e sotto il cielo…

La pioggia a un funerale è sempre melodrammatica. Se ne sta in disparte, lontano da occhi che nonostante il tempo potrebbero riconoscerlo. Canton l’ha stupito. Farsi seppellire al cimitero degli stranieri, degli atei… un colpo di teatro davvero di gran classe per un uomo che sembrava tutto tranne che creativo. L’ictus che l’ha stroncato si è ridotto a una semplice nota informativa. Un foglietto volante tra il vortice di carta che scompiglia forsennato la sua scrivania ogni giorno. Niente e-mail, niente sms, niente tecnologia. Solo carta, un enorme archivio di carta. Decenni per esaminarlo e poche ore per distruggerlo, in caso.
Se ne va prima che la cerimonia sia finita. Le scarpe scricchiolano dispari sul ghiaino bagnato. La zoppia si è accentuata negli ultimi tempi. Le dita che stringono il manico dell’ombrello sono segnate dall’artrite, non sente più indice e medio.
In strada lo attende la berlina grigia. Si osserva riflesso nel finestrino. Un vecchio, ormai. È ora di cedere il passo. Deve solo terminare di valutare i candidati possibili. Tastare il terreno. Nessuno di loro sembra persona pronta ad accettare l’incarico. Come lo è stato lui a suo tempo, quando il Vecchio gli ha passato il testimone. Le labbra dovrebbero incresparsi in un sorriso. Non lo fanno. Non c’è nulla da sorridere. Canton gli mancherà. L’ha seguito nella sua carriera, l’ha seguito come una nota a margine, un post-it. Una carriera insignificante sulla scacchiera del gioco importante. Un diversivo, una debolezza. Ma anche un modo per mantenersi ancorato alla realtà. Si fa presto a scivolare nel limbo grigiastro che si cela dietro le quinte. Il complotto complotta contro di te. Sempre.
Roma scorre fredda oltre il vetro fumè. L’autista è vestito a lutto, anche se non ha messo piede nel cimitero. Scialoja si massaggia la coscia. Il dolore si acuisce quando il tempo volge al peggio. Si concede ancora un minuto di malinconia in ricordo dell’amico poi consulta l’agenda. L’ordine del giorno. Tra i vari appunti c’è la questione della morte dello scrittore di gialli da risolvere. Un altro tassello del quadro generale.
L’ascensore che lo porta nel suo studio cigola e geme. Impermeabile e ombrello gocciolano sul pavimento di linoleum. Non ci sono specchi. Come non ce ne sono all’interno dell’appartamento anonimo in cui trascorre ormai tutto il tempo, scandito da un’insonnia feroce. L’arredamento è identico a quello che ha lasciato il suo predecessore. Anche il telefono, grigio antracite, è rimasto lo stesso. Non funziona più ma è ancora lì, al fianco di un apparecchio più moderno. Attacca il trench all’appendiabiti, si siede. Un sospiro, un massaggio blando alle tempie, poi chiama.
“Hanno fatto progressi?”
La voce dall’altro capo è squillante, un accento bolognese appena accennato. “Hanno chiuso il caso.”
Scialoja, riprova a increspare le labbra. Non succede nulla. “Bene. Fategli avere le prove.”
“Ma così…”
“Il suo lavoro non è discutere.”
“Eseguirò.”
“Mi tenga aggiornato sugli sviluppi. Voglio sapere come reagiranno e cosa faranno. Poi si consideri sospeso dal servizio.”
“…”
“Non chieda spiegazioni. Faccia come le è stato detto.” Riaggancia. Quell’ultima frase non l’avrebbe mai pronunciata prima, avrebbe semplicemente tolto l’operatività all’uomo di Bologna, senza dire nulla. È il segnale che è giunto il momento di ritirarsi. Un paio di faccende da sistemare e poi basta. C’è bisogno di qualcuno più giovane, brillante e pronto. Già ma pronto a cosa? Per cosa ha lavorato negli ultimi trent’anni? Per chi? Per lo stato? Lo stato… Lo stato non esiste. Ha smesso di crederci molto tempo fa. Eppure per fare quello che fa, che ha fatto, ci vuole convinzione. No, di più: ci vuole fede. E la fede non si può spiegare. La sua fede è una fede nell’equilibrio. L’Italia è un paese in bilico. Un equilibrista sull’abisso della storia e come ogni bravo equilibrista fa credere al pubblico di non essere in pericolo. Per poterlo fare ha bisogno di persone come lui. Persone in grado di tendere la corda e mantenerla tesa senza esitazioni e in ogni circostanza. L’equilibrio non è una questione ideologica o politica. L’equilibrio sfiora la metafisica. Eppure con la metafisica non si regge nessuna corda. L’azione è l’unica via. L’antizen è la soluzione.
Lucarelli. Un ingranaggio del sistema, un ingranaggio che ruota al contrario. Come molti altri. Osservando la macchina da un’altra prospettiva però ci si accorge che per funzionare a dovere deve avere rotelle che si muovono in entrambe le direzioni.
Fornire le prove del fatto che tutta l’indagine sia andata fuori pista e che le conclusioni siano del tutto sbagliate è contribuire all’equilibrio, è far ondeggiare il cavo. Non per far cadere l’equilibrista ma per evitare che cada dall’altra parte. Lasciare il pubblico senza fiato per un istante solo per farlo sospirare di sollievo un attimo dopo. Fa tutto parte dello spettacolo, della macchina.
Prende dal cassetto le foto degli sbirri al lavoro sul caso Lucarelli. Le sfoglia e le mescola come fossero figurine. Uno di loro è il candidato inconsapevole alla sua sostituzione. Nessuno lo riterrebbe adatto, ma non lui. Sa che non accetterà mai, come il Vecchio sapeva che lui non avrebbe accettato il compito. Eppure da decenni è lì, chiuso in quell’ufficio polveroso, inchiodato alla scrivania, celato allo sguardo del mondo a lottare con la forza di gravità che trascina l’equilibrista verso il baratro.

Chi ha ucciso Carlo Lucarelli?

È partito il romanzo totale di quest’anno. Lo organizzano le Officine Wort e il “protagonista” è Carlo Lucarelli. Potete trovare il primo capitolo, le regole per partecipare e tutte le informazioni del caso sul sito delle officine. Vi riportiamo sotto il prologo da cui partire a narrare…

Accasciato sulla poltroncina, la testa appena reclinata all’indietro. Gli occhi fissi su una piccola crepa del soffitto, sbarrati, in un inspiegabile attimo di paura. Sullo scrittoio, un computer in stand by. Appunti vergati a mano pieni di note e scarabocchi. Pile di libri. Una copia del Sabato Sera con un articolo dal titolo “Buon compleanno Carlo”. Indossa il solito completo nero, ma al posto delle scarpe, scomode, un paio di vecchie pantofole.
Gli uomini della scientifica, nelle tute bianche, stanno eseguendo i rilievi. Qualcuno ha annotato che la porta di casa pare chiusa dall’interno, e non vi sono tracce d’effrazione. Né, a un primo sommario esame, di violenza sul corpo.
“Magari è morto d’indigestione” pensa uno dei militari osservando un piatto vuoto in cui si notano ancora vaghe tracce di quello che sembra essere ragù. “E io me ne sto qua a fare gli straordinari.”
Qualcuno, qualcuno molto in alto, ha deciso che bisogna fugare ogni dubbio sulla morte improvvisa del più grande scrittore di noir del Paese. Uno scrittore a volte scomodo. Che sapeva rimestare nei segreti rimossi ad arte dalle coscienze e, secondo indiscrezioni di chi lo conosceva bene, intento a lavorare a un libro dal contenuto a dir poco esplosivo.
Per questo, erano tutti lì a cospargere di polveri maniglie e ripiani alla ricerca di qualche impronta. Faranno analizzare il contenuto del piatto. Violeranno i file del computer. Interrogheranno amici, vicini, conoscenti. L’obiettivo è dimostrare all’opinione pubblica che s’è trattato di un semplice quanto sfortunato malore, un accidente del caso. E ai tanti fan dello scrittore che non è un complotto, che nessuno l’ha mai voluto zittire.
In un angolo, invisibili a tutti, il sovraintendente Coliandro e l’ispettore Grazia Negro osservano la scena affatto convinti. Sono decisi ad andare fino in fondo, a scoprire la verità. È una questione personale. Anche se non sarà facile, per loro, trovare qualcuno che li aiuti.

Spauracchi 3

Marzo 1867, Cafe Griensteidl, Vienna

Nonostante le vicende dell’ultimo periodo, e i continui errori fatti Gottlieb nelle commissioni, Peter era riuscito a ultimare la sua Mitterhofer n° 2 e ad arrivare a Vienna in tempo per la fiera.. Se non per un gruppo di impresari danesi, nei primi giorni non aveva riscontrato l’interesse da lui sperato nei confronti dell’invenzione. Ma presto sarebbe stato ricevuto a udienza dall’Imperatore in persona, ed era certo che sarebbe rimasto ‘estasiato’ dai progressi della sua macchina per scrivere.

L’aria di Vienna gli stava facendo bene, e soprattutto stava allontanando i pensieri che lo assillavano a casa. La visita di Der Geist, Hans, i Saltner all’inseguimento del fuggitivo. Sperava solo che Gottlieb non avesse visto niente quella notte, e che non andasse a spifferare nulla in giro.

Quella sera, dopo la lunga giornata passata alla fiera, aveva deciso di concedersi un bicchierino al Caffé Griensteidl, dove avrebbe potuto incontrare altri colleghi e discutere degli ultimi progressi in campo scientifico e tecnologico. Era seduto al bancone, sorseggiava una birra pensando all’incontro con l’Imperatore, quando si sentì toccare una spalla.

“Buonasera. È lei il signor Mitterhofer?”

Senza accorgersene, Peter sgranò gli occhi e rimase immobile con il bicchiere a pochi centimetri dalla bocca. Davanti a lui una ragazza alta, con i capelli biondi, mossi, raccolti in uno chignon dal quale uscivano alcune graziose ciocche. Indossava un abito di velluto lilla, stretto alla vita da una fascia nera. Abituato alla bellezza austera e castigata delle sue valli, Peter rimase basito davanti alla generosa scollatura della ragazza, non riuscendo a dire una parola.

“Oh, mi scusi. Devo essermi sbagliata.”

“No, no.” Disse Peter cercando di riprendersi, “sono io Peter Mitterhofer.”

Gli occhi azzurri della ragazza sorrisero, forse ancor più delle sue labbra. “Oh, signor Mitterhofer. Quale onore. Proprio oggi ho visitato la fiera e sono rimasta, come dire, incantata dalla sua magnifica invenzione. Sa, oggi non ho voluto disturbarla mentre stava parlando con i suoi colleghi, ma ora ero seduta in quel tavolo là in fondo, e l’ho vista entrare. Poi ho notato che se ne stava qui da solo al bancone e non ho potuto fare a meno di venire a dirle quanto ammiro il suo lavoro e quanto vorrei…”

Peter cercò di interromperla con garbo. “La ringrazio molto, signora…”

“Oh.” disse la ragazza con una piccola risata, “mi scusi, che sbadata. Nella gioia di conoscerla mi sono dimenticata di presentarmi: mi chiamo Tessa Hunter, sono una giornalista.”

“La ringrazio molto, signora Hunter.”

“No no: signorina Hunter. Ma la prego, mi chiami Tessa.”

“Ti ringrazio molto, Tessa. Sono contento che la mia invenzione susciti l’interesse della stampa inglese.” disse Peter avendo notato l’accento della ragazza.

“A dir la verità vengo dall’America.”

“Dall’America? Chissà che viaggio devi aver fatto.”

“Già. Ma ne è valsa la pena, a quanto pare. Sto scrivendo un reportage sull’Europa, e sono venuta alla fiera di Vienna per trovare qualcuno che rappresenti con dignità l’ingegno del vecchio continente, signor Mitterhofer.”

“Oh ti prego, chiamami pure Peter.” Non era usuale per lui dare confidenza così presto a una persona appena conosciuta, ma l’affabilità e i modi di Tessa lo spinsero a fare uno strappo alla regola.

“Peter, sarei onorata se fossi proprio tu questo rappresentante. La tua invenzione è la migliore di questa fiera. Voglio sapere tutto: come ti è venuta l’idea, come hai fatto a realizzarla, gli strumenti utilizzati, il laboratorio…”

Affascinato dalle attenzioni di Tessa, Peter trascorse tutta la serata con lei, raccontandole della macchina per scrivere e di altre invenzioni. Le raccontò di Parcines, omettendo tutti gli avvenimenti accaduti negli ultimi tempi. Tessa era una ragazza spigliata, lo ascoltava con interesse e sembrava rapita dalle sue parole, avida di conoscenza.

“Ascolta Peter, mi è appena venuta una magnifica idea: potrei venire con te a Parcines. Potrei descrivere dove e come lavora il genio venuto dalla montagna, potrei anche fare delle fotografie.”

Peter rimase interdetto, stupito da una proposta così audace. Ma d’altra parte, pensò, questi americani hanno costumi ben diversi dai nostri.

“Be’, non saprei…”

“Oh, su Peter. Pensa: la notizia della tua invenzione sulle prime pagine dei giornali americani.”

“Dovrei rifletterci un attimo.”

“Allora facciamo così. Tu pensaci su questa notte, domani passerò alla fiera e mi dirai cosa hai deciso. Ora scappo in albergo, devo scrivere ai miei capi e dirgli la grande notizia. Vedrai, sarà un successo.”

1 agosto 1866, nei boschi presso Glorenza

Dopo una breve cavalcata, i due ragazzi legarono le briglie dei cavalli a un giovane faggio vicino a un ruscello. Nel bosco l’aria era fresca. Camminarono per alcuni minuti in silenzio, sedendosi poi sul tronco di un larice abbattuto, al limitare di un prato.

I capelli neri della ragazza ondeggiavano alla brezza, i suoi occhi scuri fissavano il tappeto di muschio ai loro piedi.

“Che succede? Mi sembri pensierosa.”

La ragazza tracciò con il piede l’ultimo segno di un disegno immaginario abbozzato sul terreno. “Tra due settimane inizia di nuovo il tuo incarico. Sarai sempre in giro, e per noi sarà quasi impossibile incontrarci, anche di nascosto come ora. Come se facessimo qualcosa di male…”

“Lo so,” le rispose lui, porgendole la borraccia dell’acqua.

“Pensavo che quest’anno avresti rinunciato.”

Anche lui fece un sorso dalla borraccia. “Lo sai che non posso rinunciare. Ormai la gente mi conosce, sa che cerco di svolgere il mio compito al meglio. Mi sembrerebbe di tradire la loro fiducia. E poi chissà chi verrebbe nominato al posto mio. Tuo padre vorrebbe di sicuro imporre uno dei suoi scagnozzi.”

“Già, mio padre.”

L’ultima frase rimase a mezz’aria, carica del disagio provato nei confronti della famiglia di lei. Soprattutto da un anno a questa parte, da quando la madre era morta di tubercolosi, si era sentita sempre più estranea, come se l’unico legame con il padre fosse svanito. “In questi giorni c’è uno strano via vai in casa. Sono arrivate persone con grossi rotoli sottobraccio.”

“La ferrovia?”

“Credo. Forse erano austriaci, svizzeri. È venuto anche Johann Kofler.”

“Il borgomastro di Vipiteno?”

La ragazza mosse il capo in segno di assenso.

“E che cosa c’entra lui con la ferrovia?”

“Quando ho portato nella Stube una brocca di vino, ho sentito che parlavano di alcuni terreni.”

“Chissà cosa si è messo in testa tuo padre…”

“Non lo so proprio.” La ragazza fece un sospiro, poi lo abbracciò. “Sono stanca. Mi manca mia madre, e anche mio zio.”

Nello stesso momento, Glorenza, abitazione del Vicario

Sulla tavola c’erano ancora i rimasugli del pranzo: vassoi pieni di resti di cacciagione di vario tipo, coppette con salse multicolore, taglieri con pezzi di speck e briciole di Schüttelbrot, cestini con alcuni Vinschgerle, un paio di brocche di vino rosso. Il Vicario rigirava tra le dita un bicchiere di cristallo nel quale c’era ancora un fondo di Lagrein e, nonostante lo sguardo in apparenza distratto, ascoltava con interesse il suo interlocutore. Josef Tinzl era un uomo sulla trentina, portava folti baffi neri e capelli curati. Era giovane e ambizioso.

“Le posso assicurare, Signor Vicario, che si tratta di un investimento più che sicuro. La settimana scorsa mi sono recato a Salisburgo e ho parlato con l’ingegner Strobl, il quale mi ha assicurato che al prossimo congresso geografico di Parigi esporrà questo progetto: una linea ferroviaria che colleghi Parigi a Costantinopoli per la via più breve; ovvero passando proprio per la Val Venosta. Si direbbe un colpo di fortuna per lei, signor Vicario. Nel nome del progresso.”

Il Vicario continuava a fissare il liquido rosso scuro nel bicchiere, facendolo ondeggiare piano in senso orario.

Josef Tinzl, a disagio per il silenzio nel quale era sprofondato Günther Fromm, cercò di colmare il vuoto: “Signor Vicario, a garanzia di quanto detto…”

“Ho sentito, ho sentito,” lo interruppe Fromm con tono piccato. “L’ho ascoltata, Herr Tinzl. Credo che lei sia un giovane con grandi sogni, ma pecca di esperienza.”

Josef si raddrizzò, simulando una velata indignazione per il tono del Vicario.

“Vede, mi sta chiedendo di investire una somma ingente in un progetto di non facile realizzazione. Lei sa benissimo che la linea ferroviaria del Brennero è quasi ultimata, e sono certo che questa sua idea non sarà accolta con benevolenza nelle sale del palazzo a Vienna. In un certo senso si tratta di mettersi in diretta concorrenza con i progetti dell’Imperatore. Inoltre non tutti, qui nella vallata, vedono di buon occhio l’avvento di quello che chiamate progresso.”

Josef era sconfortato. Si rendeva conto che le parole del vicario corrispondevano alla verità.

“Tuttavia,” riprese con voce stridula, “credo che, per quanto ambizioso, questo progetto possa anche suscitare il mio interesse. Ma ho bisogno di tempo per rifletterci.”

Gli occhi di Josef si ravvivarono di nuovo, intravedendo una possibilità nelle parole del Vicario.

“Bene, allora crede che si possa…”

“Non ho finito, Herr Tinzl.” Il tono severo lo fece sentire come uno scolaro disubbidiente. “Voglio avere delle informazioni in più sul progetto. Voglio dei dati precisi: tempi, costi. Ma soprattutto,” disse ingollando l’ultimo sorso di vino, “che cosa ne verrà in tasca a me, dopo.”

Josef sorrise goffo, un po’ per la gioia di non vedersi chiudere ogni possibilità al primo tentativo, un po’ per timore. Quell’uomo aveva uno fascino inspiegabile. Il tono della voce presentava qualcosa di inaspettato, malizioso, quasi maligno. Parlando con lui, si aveva sempre l’impressione di non avere mai il quadro completo sotto gli occhi: sembrava custodire qualche particolare, il dettaglio fondamentale.

Il sorriso di Fromm sembrava ora diverso, più intenso. Pareva quasi un ghigno e, assieme alle sopracciglia fini e appuntite, gli conferiva un aspetto diabolico.

Josef sentì crescere il disagio. “Si… ehm… certo, signor Vicario” balbettò. Poi si alzò, cercando di riacquistare la padronanza della voce con un lieve colpetto di tosse, e si diresse verso la panca sulla quale aveva appoggiato giacca e cappello. Rigirandosi verso il tavolo, vide il Vicario versarsi un altro bicchiere, mentre era intento a osservare le carte che gli aveva portato. Il suo aspetto sembrava tornato bonario.

“Vedrò di farle avere al più presto le informazioni che desiderate, signor Vicario.”

“Lo spero davvero, Herr Tinzl. Addio.”

Günther Fromm si sporse sul davanzale che dava sul cortile interno.

“Jurgen, Gerard!” Urlò.

Dall’arco che conduceva alla cantina uscirono i due figli.

“Cosa stavate facendo in cantina, eh?”

“Niente padre…” rispose incerto il maggiore, “stavamo solo…”

“Ah! Sempre a bere, voi due. Mai che combiniate qualcosa di buono. Chiamate Christof, e ditegli di preparare la mia carrozza, devo andare da Johann.”

“Ancora al Franzenfeste? Ma non avevate già…”

“Non discutere con tuo padre. Fa quello che ti ho detto, e sbrigati.” disse rientrando in casa. “Quei due impiastri. O stanno a bere, o spariscono per i boschi. Nemmeno di loro mi posso più fidare.”

Primi di marzo 1867, Nei dintorni di Maso Corto

Negli ultimi giorni avevano continuato a seguire le tracce lasciate dal fuggitivo. Prima erano arrivati fino a Maso Corto, e da li stavano ripartendo in direzione della Val di Mazia.

“Dove diavolo ci vuole portare quel bastardo?” disse Siegfried con rabbia. Hans comprese subito il motivo dell’aggressività: sua figlia era stata trovata morta circa un anno prima, proprio alle pendici della Saldurnspitze, sul versante della Val di Mazia. Per lui doveva essere molto dolorosa l’idea di rivedere quei luoghi.

Il freddo era intenso. Le difficoltà incontrate lungo il percorso avevano messo a dura prova la tenacia dei Saltner. Prima di partire da Maso Corto si erano procurati delle giacche più pesanti e delle coperte, in modo da proteggersi durante la notte. Ma Martin non aveva nulla del genere con sé, e Hans continuava a chiedersi come potesse sopravvivere. L’unica risposta, pensò, risiedeva nella sconfinata conoscenza dei luoghi, e soprattutto nell’infinita forza d’animo di quell’uomo.

Davanti a loro si stagliava la Saldurnspitze, mentre sulla destra si vedeva la punta Oberettes. Le tracce portavano dritte nella parte più bassa tra le due montagne, l’unico passaggio attraverso il quale sarebbe stato possibile arrivare in Val di Mazia in quella stagione.

Da quel punto le due montagne apparivano splendide, giganti assonnati avvolti in una candida coperta. Erano molte le leggende narrate su esse, e Hans rammentò la volta in cui sentì Gerard e Jurgen, i figli del Vicario, parlare di quei luoghi. Era capitato di domenica, dopo la messa. Jurgen si stava pavoneggiando davanti ad alcune ragazze, mentre Gerard era rimasto un po’ in disparte, osservando con sguardo severo il fratello. Jurgen iniziò a parlare dei riti che, secondo la leggenda, avrebbero fatto confluire alle pendici di quei monti moltitudini di persone dalla Val Senales e, attraverso la Val di Mazia, dalla Val Venosta. Proprio in quel momento, Gerard gli si avvicinò a grandi passi, lo strattonò per la giacca e lo portò via. Hans li seguì con lo sguardo, e da lontano vide Gerard arrabbiarsi con il fratello.

Spauracchi 2

Febbraio 1867, da qualche parte in Val Senales

Aveva lasciato delle tracce, come altre volte di recente. I quattro Saltner concordavano: era passato di lì.
Hans fu il primo a parlare. “Non capisco, un Saltner esperto come lui dovrebbe accorgersi quando lascia tracce così evidenti. Avrebbe potuto nasconderle. E poi sono strane…”
“È stanco, solo, affamato e in fuga da mesi; secondo me inizia a perdere lucidità.”
“Non credo, Sigfried, non credo. Lo conosco bene, ci sta segnalando una pista.” L’espressione pensierosa di Hans, mentre scrutava il sentiero, preoccupava i compagni di viaggio.
“Hans devi smettere di credere che non sia stato Martin, chi altro…”
Il vecchio Saltner interruppe quelle parole. “Si è diretto verso nord.”
“Fa troppo freddo lassù, c’è troppa neve.”
“Le tracce sono piuttosto chiare, anche se c’è qualcosa di strano.”
La giornata era stata limpida e temperata. L’odore del sottobosco umido riempiva l’aria d’aromi di fungo e aghi di pino; aveva piovuto nei giorni scorsi e in quota, sulle pendici delle montagne, era caduto uno spesso strato di neve.
“È ora di cercare un riparo. Le ombre si allungano dalla cima delle montagne. Presto sarà buio. La giornata è stata calda, ma questa notte sarà molto fredda.”
Nascosto nel fitto della boscaglia, a poche centinaia di metri, guardò i quattro uomini dirigersi verso la casa isolata di un contadino. Si rilassò, e sorrise. Hans aveva capito, o per lo meno così gli era parso. Si voltò e diresse lo sguardo a nord verso il Maso Corto. Era giunto il momento di cercare riparo dal gelo della notte. Non aveva mai dormito all’aperto in quota d’inverno, sarebbe potuto morire assiderato. Doveva crearsi un riparo prima del buio. Pensò a cosa lo stesse attendendo, non era una sua scelta. Non aveva avuto scelta.

Settembre 1866, Glorenza, abitazione di Hans

“Mi hanno raccontato del problema che hai avuto con il Vicario la scorsa settimana, Martin.” Erano seduti al tavolo, la luce delle lampade a olio illuminava tremula le pareti della stanza.
“Dispone di noi e delle terre a suo piacimento. Trenta fiorini… Maledetto. Se penso a quando l’ho accompagnato fino alla fortezza in Val d’Isarco, al Franzensfeste, al tono amichevole in cui mi parlava. Chissà quali loschi affari con gli austriaci è andato a concludere lassù. Scommetto che ha a che fare con la ferrovia che stanno costruendo da quelle parti. Progresso lo chiamano… Progresso per chi? Per i potenti, ecco per chi.” Martin si alzò e si diresse verso la finestra, a osservare la sera scendere piano sulla valle. Poteva vedere la cima innevata del Weisskugel; gli ultimi raggi di sole tingevano di rosa la sua vetta.
“Calmati Martin, non farmi ancora una volta la predica su come il progresso non porterà nulla di buono per i contadini delle valli.”
“No Hans, non è una predica,” si voltò verso l’amico, “e mi hai frainteso. Sono convinto che la ferrovia porterà qualcosa di buono, ma a che prezzo? Puoi anche scrivertelo adesso, questo progresso farà più ricchi i ricchi e più poveri i poveri.”
“Capisco, capisco e concordo. Ma tu sei troppo impulsivo. Così ti rendi nemico di molti.” Gli sorrise, e pensò a quanto in Martin rivedesse se stesso. Giovane, diciotto anni prima, quando aveva lottato a Cortina per cambiare le cose. Contro L’Impero e contro gli ampezzani fedeli all’aquila. Pensò a quanto il tempo cambia le persone, e un velo di tristezza gli ingrigì gli occhi azzurri.
“Ora siediti, e raccontami ancora una volta di quando accompagnasti quell’inglese fino alla cima del Weisskugel, come si chiamava?”
Martin si rilassò e sorrise. L’amore per le vette era troppo grande, quelle pareti scoscese e quei sentieri sulle creste lo facevano sentire vivo. I panorami di lassù, le distese di cime innevate e le valli verdeggianti gli avevano insegnato quanto gli uomini fossero insignificanti, e presuntuosi, al cospetto della natura.
“Freshfield, si chiama Freshfield. C’erano altri due inglesi, non ricordo il nome… gentili, adoravano le montagne. Uno di loro mi regalò pure il suo intero equipaggiamento. Era solo la seconda volta che qualcuno raggiungeva la vetta del Weisskugel, lo sapevi? E il panorama da lassù. Hans… oh, il panorama.”

Febbraio 1967, Val Senales

Si risvegliò alle prime luci dell’alba.
Calore, ne aveva bisogno. Il riparo che si era creato addossato a un albero lo aveva protetto dal gelo. I cumuli di neve che aveva eretto a protezione del tronco della conifera formavano un semicerchio coperto da alcuni rami. Aveva ammassato la neve in pareti più alte possibile e aveva coperto il tutto con rami secchi, in modo da farli poggiare ai rami inferiori della conifera e alla neve. Si era permesso di accendere un piccolo fuoco, non voleva cha la luce fosse visibile, anche se, costruito così, era difficile che un bagliore uscisse dal riparo. Era bastato a sopravvivere. Doveva scendere a valle il più presto possibile. Se solo avesse trovato tracce chiare per capire in quale direzione muoversi.

***

I quattro Saltner lasciarono la casa del contadino poco dopo le prime luci dell’alba.
“Le ultime tracce trovate ieri puntavano verso Maso Corto, verso gli alpeggi.” Hans guardò il cielo mentre parlava: “oggi le montagne sembrerebbero essere ancora clementi con noi, e regalarci ancora sole.”
“Credo anch’io, ma le nubi laggiù verso l’Austria non promettono nulla di buono. Penso che il tempo cambierà, ed essere lassù all’aperto diventerà molto pericoloso.”
Si misero in cammino in direzione nord, avanzando con difficoltà nella neve. Dopo circa venti minuti di cammino arrivarono alla piana. Hans si guardò in giro. Spostò lo sguardo da destra, oltre il dosso coperto di neve e conifere, là dove inizia la stretta valle che porta al Similaun, a sinistra, alla continuazione della vallata principale che porta fino a Maso Corto. Le due pareti di roccia e neve che salgono fino a congiungersi nel catino di vette che circondano il Maso. Martin la conosceva bene; da lì era salito al Weisskugel.
Sigfried era preoccupato. “Non può essere andato lassù, è un suicidio, la temperatura è troppo bassa di notte, è troppo esperto della montagna per andare a morire assiderato.”
Hans rifletteva in silenzio guardando negli occhi i compagni di viaggio. Era facile percepire il timore per la loro stessa vita. “Hai ragione, non può essere andato al Maso, per quanto possa aver perso la lucidità non morirebbe mai in questo modo. Dividiamoci e cerchiamo tracce che ci aiutino.” E tra sè penso: ‘cosa è venuto a fare quassù?’

Laboratorio di Peter Mitterhofer

Peter non riusciva a togliersi dai pensieri la visita di poche notti prima. I lavori sul secondo prototipo di macchine per scrivere erano rallentati da quando Der Geist gli aveva fatto visita, e non poteva permetterselo data l’imminente fiera di Vienna. Peter contava molto sul secondo modello, era riuscito a risolvere alcuni dei problemi che caratterizzavano la Mitterhofer n° 1. Ora aveva bisogno di finanziamenti per continuare il suo lavoro.
Der Geist. Perché lo aveva visitato? Per Peter ormai era tutto chiaro, le parti del rebus erano quasi completate. Ora ciò che lo preoccupava di più era il futuro. Avrebbe dovuto rivelare l’identità di Der Geist? O tacere, diventando così suo complice? Doveva parlare con Hans, lui avrebbe saputo cosa fare, ma Hans era da qualche parte sui monti.
L’unica spiegazione che era in grado di dare alla visita era che Der Geist voleva servirsi di lui per comunicare un messaggio. Lui solo, ora, sapeva l’identità del fuggitivo, e non lo avrebbe tradito. Non avrebbe rivelato quel nome a nessuno. Non prima di aver parlato con Hans, almeno. Forse era proprio quello che Der Geist sperava.

Val Senales

Dopo essersi levato dal giaciglio, aveva osservato con attenzione attorno a lui. Nessuna traccia dei quattro inseguitori. Si era mosso con cautela e aveva iniziato la sua ricerca. Non c’era voluto molto tempo. Guardò verso valle senza riuscire a vedere alcun movimento. Ma era in quella direzione che doveva andare.
“Ehi, ho trovato qualcosa!” Le urla colme d’emozione giungevano dal versante ovest della montagna, poche centinaia di metri più a sud della posizione in cui si trovava Hans. Corsero tutti nel punto da cui Franz aveva gridato. Hans si accucciò e guardò il ricovero per la notte che era stato costruito. Un riparo di fortuna per sopravvivere ai rigori notturni. Era stato Martin. Ne era certo. Era stato lì quella notte. Sotto la cenere i tizzoni emanavano ancora calore, quel fuoco non era stato spento più di cinque, sei ore prima.
“Cerchiamo ovunque, è partito da qui poche ore fa, bisogna capire in che direzione è andato… deve essere vicino, molto vicino. Dobbiamo raggiungerlo.”
Hans immaginava la scena svoltasi in quel bosco poche ore prima. Martin dopo il risveglio si era aggirato cauto nei paraggi, le tracce parlavano chiaro. Perché? Cosa stava cercando? Si era mosso a cerchi concentrici via via sempre più ampi. Non è un comportamento da fuggiasco, bensì da inseguitore.
“Hans, corri, Hans vieni a vedere questo!” Sigfried poche decine di metri più a valle aveva trovato qualcosa.
Bastò uno sguardo rapido. Orme nella neve. Tante, troppe orme nella neve. Come aveva fatto a non capirlo prima? Si diede dello sciocco mille volte. Le indicazioni le aveva avute davanti agli occhi più e più volte, negli ultimi giorni. Non aveva voluto ascoltare quella voce che dentro di lui suggeriva che qualcosa non tornava. Ora capiva. Un brivido gli percorse la schiena.
Erano in due, c’era qualcun altro su quelle montagne. E Martin lo stava inseguendo. Martin non era in fuga, Martin stava inseguendo qualcuno.

Nello stesso momento, Glorenza

Il Vicario si stava dirigendo verso casa, l’andatura tipica, veloce a piccoli passi, le mani intrecciate dietro la schiena, lo sguardo basso. Udì qualcuno avvicinarsi di corsa e rabbrividì. Si volse di scatto. Riconobbe Karl, il Giurato. La tensione in cui viveva da mesi lo aveva tramutato in un pavido. Quando era solo temeva la sua stessa ombra. Temeva Der Geist.
“Vicario, Vicario. Terribili notizie.” Karl si avvicinava sbracciandosi come in preda a una crisi. “Avevamo ragione Vicario, purtroppo è come temevamo, dobbiamo immediatamen…”
“A cosa ti riferisci, Karl? Hai forse perso il senno?” Riuscì a mascherare la tensione con il tono duro della voce.
“Mi scusi Vicario. Vostro fratello, signore, vostro fratello…”
Il Vicario sentì le gambe cedergli. “Cosa? Per l’amor del cielo, cosa?”
“È fuggito dal sanatorio, dicono di non avere notizie di lui da tempo.”
“Dannazione, sapevo che la scelta del sanatorio a Venezia era una pessima idea… Da quanto non hanno più sue notizie? Perché non siamo stati avvertiti?”
Karl era imbarazzato, odiava non poter rispondere in maniera appropriata al Vicario. Quell’uomo lo intimoriva, nonostante la bassa statura e il ventre prominente gli conferissero un’aria bonaria. C’era qualcosa nel suo sguardo, un abilità di incutere timore, senza muovere un muscolo, senza sbattere le palpebre.
“Non saprei, il corriere non mi ha saputo dire. Ma posso informarmi.”
“Basta. Non m’interessa. Tieni la notizia per te. Non parlarne con nessuno, intesi? Nessuno.”
Il Vicario si allontanò, la testa immersa in pensieri e incubi: suo fratello, le grida mentre lo portavano via, quella notte fredda… La notte in cui tutto cambiò. Avrebbe dovuto essere più cauto allora, nulla sarebbe successo, se solo fosse stato più cauto.

Spauracchi 1

Tempo d’estate, tempo di feuilleton… Era il 2005 quando lanciammo il romanzo totale gothic western ambientato in Sudtirolo “SPAURACCHI”… forse il migliore di sempre… Rieccolo a puntate:

Novembre 1866, Nei dintorni di Maso Corto

“C´è qualcosa nel ghiaccio…” I bambini accorsero curiosi al richiamo di Matthias, affacciato al vecchio pozzo nel bosco. “È vero. Ma cos´è?” Circondavano il cilindro di pietre lanciando pigne e ciottoli sulla superficie dura e trasparente. Un rumore alle loro spalle li fece voltare di scatto. “Papà! Guarda, c´è qualcosa nel pozzo.”
Il boscaiolo si avvicinò al figlio e agli altri bimbi con un sorriso bonario sulle labbra. Quando guardò nel pertugio, spostò la testa da un lato per scrutare meglio la forma scura nel ghiaccio. Poi si voltò, nervoso, aprendo le braccia per allontanare i ragazzini. “Via di qui. Andate in paese a chiamare il borgomastro, presto.”
Come una crisalide nell´ambra, un corpo rannicchiato giaceva nel gelido cristallo.

Febbraio 1867, boschi della Val Venosta

L´uomo accucciato fece scivolare il fango tra le dita valutandone la consistenza, poi si pulì la mano strofinandola sui pantaloni corti di pelle. Si alzò in piedi, scostando dal volto le piume del cappello.
A ogni passo una collana di denti di maiale tintinnava sul petto. “È passato di qui. Non più di otto,dieci ore fa.” Le tre figure attorno annuirono e ripresero il cammino con le alabarde in spalla. Mentre risalivano il ripido sentiero, l´uomo in coda si fermò un attimo a osservare il cielo, poi scosse il capo.
“Cosa c´è Hans?” Qualcuno aveva notato il gesto.
“Non sono convinto, Sigfried. Non può essere stato lui. Lo conosco da troppo tempo.”
“Tutti noi pensavamo di conoscerlo.” Sigfried allungò il passo, lasciando Hans a guardarsi intorno. Gli sembrava di aver visto un bagliore tra il fitto della boscaglia.
Le unghie dure, irregolari e affilate strisciavano sulla lama. Nascosto tra le fronde, poteva osservare il Saltner dai capelli corvini scrutare i boschi, mentre gli altri tre arrancavano più avanti. Le pesanti giacche di pelle marrone contrastavano col grigio delle rocce. Poteva quasi sentirne l’odore. Per un istante gli parve di incrociare il suo sguardo. Poi si alzò in piedi e si volse, scomparendo silenzioso nella macchia di abeti. Corse per un lungo tratto, evitando con meccanica precisione i rami appuntiti. Sembravano trappole messe apposta per graffiare il viso e le vesti di chi si fosse avventurato nel bosco, ma non riuscivano nemmeno a sfiorare il fuggitivo, Der Geist, come di recente era stato ribattezzato. Arrivato al limitare del bosco, poco prima di un dislivello scosceso, si fermò un attimo per prendere fiato. Appoggiato a un albero, guardò verso la conca sottostante. Gli occhi chiari ne accendevano il volto sporco di terra, lampeggiando come lame nell’oscurità. Ristette alcuni minuti, immobile. Strinse le pupille nel tentativo di mettere a fuoco il casolare, alcune centinaia di metri più in basso. Una costruzione di pietra e legno, lineare e ben rifinita, con accanto un capanno più rozzo ma assai ampio. Due sillabe gli affiorarono alle labbra, senza che quasi se ne accorgesse, la voce ridotta a un sibilo dall’inutilizzo delle corde vocali. Da mesi non parlava più con nessuno.
“Pe-ter.”

Settembre 1866, in una falegnameria alle porte di Parcines

“Ecco vedi, basta alzare qui e il gioco è fatto.” L’uomo con gli occhiali azionò la leva al centro del marchingegno. Non appena il rullo agganciato alla tastiera concluse il giro, Martin il guardaboschi estrasse il foglio dal macchinario e lo osservò in controluce. “Stupefacente… i caratteri sono perfetti, non c’è la minima sbavatura. Come hai detto che si chiama?”
“Macchina per scrivere.” Rispose il falegname, pulendosi le lenti sul grembiule.
“Macchina per scrivere. Macchina per scrivere” fece eco Gottlieb, il nano, che scomparve dietro la porta trascinando con sé una borsa piena di attrezzi.
Il Saltner lo guardò uscire, poi sorrise. “Che razza di aiutante ti sei trovato? Comunque prevedo grandi fortune per te, Peter. Alla fiera di Vienna la acclameranno come l’invenzione del secolo.”
“Io mi accontenterei di un bel gruzzoletto. Tutti fanno affari a Vienna…”
Martin strinse fra le mani la fibbia di ferro sopra i pantaloni corti. ”Questa l’ho presa da un polacco l’anno scorso, in Austria. Cinque fiorini…”
“Si fanno affari con i forestieri, è vero. Due anni fa sembrava che tutti volessero la mia Mitterhofer n°1, la prima macchina che ho costruito. Danesi, americani, perfino i messi dell’imperatore: si dice che Francesco Giuseppe sia generoso con i sudditi che dimostrano inventiva.”
“Con i potenti! Con quelli sì che è generoso…”
Il falegname abbozzò un sorriso. “Ancora problemi con il Vicario?” Pose la mano sulla spalla del Saltner per consolarlo. Lui scosse il capo, lisciandosi i baffi.
“Stavolta ha superato i limiti. Ho pizzicato ancora i suoi figliastri nella vigna di Müller, mentre si portavano via tre ceste di fragolino… Li ho presi per le orecchie entrambi, li ho fatti spogliare e li ho spediti a casa con il sedere all’aria. Dico io, sono il Saltner, lo posso fare. E invece il giorno dopo il Vicario mi viene a cercare con le guardie, porci servi del denaro, e mi costringe a pagare una multa di trenta fiorini per abuso dell’esercizio di guardavigne al di fuori dei confini assegnati. Nella notte, l’infame si era comprato i filari dove avevo colto in flagrante i ragazzi, che sono proprio al confine. Ha cambiato le mappe delle proprietà e anticipato la data di acquisto di due giorni. Il tutto avallato dal sigillo dell’Impero. Così adesso risulto io l’intruso. Figlio d’un cane. non finisce qui.”
Peter Mitterhofer tirò un lungo sospiro, era abituato a queste storie. Da sempre aveva vissuto sulla pelle i soprusi del potente di turno. Persone senza scrupoli disposte a tutto. Günther Fromm, il Vicario, ne era un esempio: aveva fatto internare il fratello Karl per poter intascare la sua fetta di eredità. Un giovane ingenuo e un po’ bizzarro ma di buon cuore, finito in manicomio senza un perché. Mitterhofer conosceva bene Karl: grazie alle sue grandi doti di falegname lo aveva preso con lui in bottega, fianco a fianco ogni giorno per parecchi anni. Poi l’orribile fine, imprigionato dal fratello arrivista e meschino. Maledetto Fromm.
“Porta pazienza, Martin. Tra qualche mese avrai finito il turno nei campi e queste sventure saranno solo un ricordo sbiadito. Allora potremo farci sopra una grassa risata. E una sana bevuta.”

Febbraio 1867

Il laboratorio di Peter Mitterhofer era una costruzione tozza e squadrata, posta a pochi metri dall’abitazione padronale. Mastro Peter aveva l’abitudine di recarvisi anche dopo cena, per spendere qualche ora a lavorare alla luce delle lampade a olio. Pochi tocchi di cesello per conciliare il sonno. La serata era rigida e ventosa, Gottlieb il nano si era appena congedato ritirandosi nella stamberga che il padrone gli aveva affittato, appena fuori il recinto del maso. Dopo aver salutato l’aiutante con un cenno, il falegname si affrettò a entrare nel capanno per sottrarsi alle sferzate della tramontana.

Richiusa la porta alle spalle si addentrò nel buio, cercando di accendere il lume sul tavolo da lavoro. All’improvviso, una vibrazione nell’oscurità lo fece sobbalzare. Afferrò uno degli scalpelli da legno, il primo a portata di mano, e si girò in direzione del rumore. “Chi c’è?”
Il movimento fu rapido e secco come il vento. Mitterhofer avvertì appena un dolore al polso, e subito si rese conto di essere stato disarmato. La mano destra gli formicolava; le dita, rese insensibili dal trauma, stringevano il vuoto. Poi una massa scura lo spinse sul tavolo, premendogli uno straccio polveroso sulla bocca. Infine un sibilo gli giunse all’orecchio, come se arrivasse da un’altra dimensione: “Ma-stro. Pe-ter.”
Riconobbe subito la voce, anche se meno viva e squillante di come la ricordava. Rilassò appena i muscoli, l’aggressore si allontanò verso la finestra.
Der Geist aprì un’anta, di poco, facendosi illuminare da un raggio di luna. La luce grigio argento ne disegnò il profilo marcato contro il buio. Il volto triangolare, aguzzo, incorniciato dai capelli lunghi, resi stopposi dallo sporco e dall’umidità. Il corpo robusto ma agile, coperto da una vecchia blusa di pelle scamosciata, zuppa di fango. Un bagliore si riflesse sulla fibbia del cinturone, sopra i Lederhosen.
Rimase così, immobile, respirando piano e fissando il vecchio artigiano. Mastro Peter socchiuse gli occhi lasciandosi cadere su una sedia. Poi parlò. “Non ho mai creduto che tu fossi un assassino. Tanto per mettere le cose in chiaro…” Si fermò un attimo, massaggiandosi il polso ancora dolorante, quindi riprese. “Sono venuti a interrogarmi la sera stessa del ritrovamento. Non mi hanno chiesto della giovane uccisa, solo se ti conoscevo, se sapevo dei tuoi problemi con Günther… Non sapevo nemmeno fosse sua figlia, quella poveretta.

Io gli ho risposto: «Chi non ha mai avuto problemi col Vicario?», ma non ho detto altro. E non ce n’è stato bisogno, in molti sapevano.”

Der Geist continuava a fissarlo senza alcuna espressione. Silenzioso. Mitterhofer non aveva paura ma si sentiva a disagio. “Hai fatto male a sparire. Non trovandoti, scaricheranno la colpa su di te. Era la figlia di un uomo importante, il borgomastro ha dato molta attenzione al fatto. Tutti i Saltner della valle sono stati incaricati di darti la caccia. Chi non c’è ha sempre torto…”
Il fuggitivo fece un movimento impercettibile, come un piccolo sbuffo. Poi l’anta si richiuse e la sua figura sparì nell’oscurità. Mitterhofer sentì ancora quel rantolo disumano vicino all’orecchio: “A mo-do mio, Ma-stro Pe-ter. A mo-do mio.”
Un flusso di vento gelido investì il viso dell’artigiano. Der Geist era già scomparso.

Cassiel’s Song

More about La strategia dell'ArieteA distanza di quasi tre anni, “La Strategia dell’Ariete”, nonostante sia esaurito grazie al copyleft è un vero e proprio longseller anzi longdownloaded.

Direttamente dal cielo sopra Berlino arriva la recensione di Cassiel:

È bene premettere a questa recensione che il romanzo del collettivo Kai Zen risulta fuori catalogo ed esaurito da tempo. Sarebbe atto di sadismo istigare un desiderio di lettura che può essere difficilmente soddisfatto. Ma nel sito dedicato al romanzo, non solo è possibile scaricarlo gratuitamente, ma è anche possibile prelevare una serie di contenuti speciali. Tutto il loro materiale letterario, d’altronde è prodotto anche in copyleft, con licenza creative commons.

Il romanzo storico ha molteplici strade, quelle del tempo, del luogo e della destrutturazione oggettiva. Attraversa le strade della finzione e quelle della ricostruzione minuziosa. Il romanzo storico è sempre un atto soggettivo, come sempre è soggettiva l’interpretazione della Storia.

Ma quando la narrativa storica veste anche i panni del romanzo totale, le cose si complicano. Il romanzo totale è quasi sempre un’esperienza di letteratura militante, non è mai un’operazione fine a se stessa, che si caratterizza, oltre per gli elementi tipici della fiction, soprattutto per alcuni canoni specifici: rispetto della documentazione, interpretazione e manipolazione, a volte critica storico-politica.

Affidarsi alla realizzazione di un romanzo totale, vuol dire avere la consapevolezza della possibilità dello stravolgimento di tali canoni. E vuol dire, soprattutto, radicalizzare ancor più la visione soggettiva per metterla al servizio della Storia collettiva, attraverso la visione totale. Un’apparente contraddizione in termini, ma una contraddizione necessaria e viva, come appunto è la Storia: una contraddizione viva che gronda sangue e carne.

I Kai Zen, nella “Strategia dell’Ariete”, estremizzano sia l’esperienza di romanzo totale, che quella di romanzo storico, e espandono la materia narrata ben oltre le pagine di questo romanzo. Una Storia che assume se stessa e procede in tutti i lati possibili, superando i vari livelli storico-narrativi contenuti e che continua nell’immaginazione dei lettori. Non a caso i Kai Zen perseguono la totalità anche attraverso l’espansione del loro essere collettivo, con progetti letterari che coinvolgono gli stessi lettori.

“La Strategia dell’Ariete” è però, nella sua sublime “incompiutezza”, anche un romanzo compiuto con una trama e un finale, con un incedere avvolgente e avvincente. I piani di lettura sono molti e anche il più semplice è salvaguardato. Ed il facile, anche in letteratura, è difficile a farsi: scrivere letteratura popolare, conservando tutti i migliori elementi di tale genere, senza scadere nel cattivo gusto e farlo al massimo delle possibilità. “La Strategia dell’Ariete” coglie nel segno perché è tutto questo.

Kai Zen on the Rap Sheet

rapsheetKai Zen: The Future of Publishing?

It was during this spring’s A Qualcuno Piace Giallo crime-fiction festival in Brescia, Italy, that I had the opportunity to sit down over breakfast one morning with the four young Italian guys who make up the extraordinary “narrative ensemble” known as Kai Zen.

Jadel Andreetto, Bruno Fiorini, Guglielmo Pispisa, and Aldo Soliani have been writing together via the Internet since 2003, though they didn’t actually meet until the publishing party for their 2007 debut novel, La strategia dell’ariete (The Strategy of the Ram), an “epic novel of adventure and history.” It was principally about that work that these four were invited to speak in Brescia. However, they also filled their audiences in on the publication in book form of two other online “experimental” thriller-writing projects, La potenza di Eymerich (Bacchilega Editore, 2004) and Spauracchi (Bacchilega Editore, 2004). The latter work is described as “a horror western set in Alto Adige,” a quiet little region in the Italian Alps (aka South Tyrol or “Heidi Land”)–which gives you some idea of just how wacky Kai Zen are. But the plot of La strategia dell’ariete also reflects their idiosyncratic writing tastes. Here’s a translation of that novel’s cover notes:

What is a hit man of the Triads doing at the First Congress of the Chinese Communist Party in 1920?

Does the recovery of two ancient vases from the China Sea by tormented archaeologist, Professor Heinrich Hofstadter, have anything to do with it? And what is Hofstadter’s son, a Nazi freemason, doing in the rain forests of the Mato Grosso 20 years later?

Shelley Copeland of the CIA is racing across the Texas plains one night in 1957 with a mysterious container in her luggage, a million dollars waiting in a deposit box, and a murder on her mind.

Al-Hàrith is the name of the secret. Al-Hàrith is protected by centuries of silence. Al-Hàrith: the strategy of the Ram …

On the day I spoke with this group, Pispisa (the most prolific member–he’s published several novels under his own name, in addition to those he’s penned with Kai Zen) was not present. He was home in Sicily attending to his pregnant wife, Germana, who had to undergo some clinical tests–the “creepy details,” according to Pispisa, involved a lengthy syringe, various injections, and the extraction of a fair amount of amniotic fluid.

It’s hard to give a sense of what it’s like to meet Kai Zen. Let’s call it an enjoyable nightmare for an amateur interviewer like me, because they take the piss out of each other (and their questioner) all the time. Imagine Bedlam, and you’ll have a limited idea of the experience. I taped our whole exchange, and what follows is the English-translated version. I admit to having edited it for the sake of some degree of clarity.

Michael Gregorio: How did Kai Zen come together as a writing team?

Aldo Soliani: Quite by chance, really. Three of us took part in an Internet writing experiment. We didn’t know each other. We just sent in material to a Web site. It was a story with multiple characters, including a fictional Japanese “industrial rock” group called Kai Zen. …

Jadel Andreetto: Talking about industrial rock, do you know the Nine Inch Nails? Kai Zen are a bit like them–mixing, spreading, manipulating, sharing, and working within a Creative Commons license. Nine Inch Nails do it with sounds; we do it with words. …

Soliani: When we did eventually get together, we needed a name, and Kai Zen was as good as any other that we could come up with. It’s meaning in Japanese is “continuous improvement,” which seemed about right for us. [Hilarious laughter ensues–the members of Kai Zen laugh a great deal]. In Japan and lots of other places, they use Kai Zen philosophy as a company training method to persuade factory managers to work harder. We liked the idea. We found it ironically well-suited to what we were doing, so we just picked it up and used it.

MG: So, how did you guys physically meet?

Bruno Fiorini: Destiny played its part. The other three had taken part in this collective online writing experiment, and their chapters were selected as part of the final work, which resulted in a printed book, Ti chiamerò Russell [Bacchilega Editore, 2003]. The whole thing was organized by Wu Ming, the best-known Italian writing collective; they first published Q as “Luther Blisset” in 1999, and Manituana in 2007. When Ti chiamerò Russell was finally published, the three of them met up for the very first time at the launch party in Bologna in central Italy. … I had been invited to the party, I met the others, and we became friends. On that occasion, the four of us decided to launch a writing project together. We wanted to work on some­thing historical. A novel … That is, I was really interested in the history angle. So, we decided to have a go, and see

what came of it.

MG: What did that Wu Ming writing project involve?

Andreetto: Just to finish off a story: Paolo Bernardi, an editor with the publisher Bacchilega Editore, and Wu Ming had this spy-thriller story idea. Giovanni Cattabrigha [aka Wu Ming 2–there are five members of that writing collective] had written Chapter One of a novel featuring a spy named Russell; it was a sort of international intrigue set in an unspecified foreign country. They invited anyone to submit the next chapter, selecting the “best” chapter each time, then adding on to that one, building the book up step by step. The first experiment was pretty rough, but we were keen. It was, more or less, a test run to see if the thing was possible, using the Internet as a means of creative collaboration. It ended happily enough by creating a master­piece! [Lots of laughs.] Well, OK, it was an interesting document, and it produced … Ti chiamerò Russell. That’s how we started out …

Soliani: Every one of us has his own version of the story …

MG: Let’s talk about the first novel you wrote together as a group. La strategia dell’ariete was published by Mondadori in 2007. In Italy, this sort of collaborative authoring has been quite successful. It has led to Wu Ming, Kai Zen, and several other similar partnerships. However, the idea hasn’t really taken off in other countries, leading to publishing contracts and books on store shelves. How would you explain that fact?

Fiorini: Let me clarify by saying that Wu Ming don’t do much on the Net. Russell was a one-off thing. The fact is that they all live in the same city [Bologna], while we live in different towns from one end of Italy to the other. We have no choice. If we want to work together, we have to use the Net. I live in Bolzano, while Guglielmo lives down in Sicily. That’s a million miles away …

Andreetto: We are conditioned by our circumstances. Living in distant places, the Net was the ideal communications system for us. And at a creative level, we’ve been greatly inspired by Net-writing. We started out as Kai Zen in 2003, coinciding almost precisely with the explosion of the Internet in Italy–Web 2.0 has led to an immense expansion of the possibilities in a very short time …

The members of Kai Zen (left to right): Guglielmo Pispisa, Jadel Adreetto, Bruno Fiorini, and Aldo Soliani.

MG: Yes, but why do young Italians write together on the Net?

Soliani: My partner is from Northern Europe, so I think I can add to what Jadel was just saying. In my opinion, it all ties in with the Italian “character.” Italians are sociable; the question of friendship and belonging to a family type group is incredibly important for guys like us. In other countries, maybe, individualism is the big thing. Here, instead, it’s second nature to share what you’re doing with your pals–it makes what you’re doing even more interesting. I write something, and I think: Hey, I’ll show this to Jadel, Bruno, and Guglielmo and see what they think. Obviously, they write back. … This sense of fraternal belonging isn’t so strong in most other European countries. OK, on the one hand it is a great feeling, but maybe it’s a weakness too. But that’s the way Italians are. It may be a limitation in the sense that we can’t work alone; we need someone close, someone to trust, someone to lend you a hand and offer you their support.

MG: I want to talk about your “total novel” (il romanzo totale) project. I understand that every year you put one of these together, and anyone can take part via the Web. They get to write sections of the thriller with you. How did that come about, and how does it work?

Soliani: We started out by working on the Net, developing a story which already had a starting-point–the incipit, or opening chapter. So, after we met, we decided to specialize in this sort of experimentation. We liked the idea, and we started talking about what would be the best way to organize the work. In the first place, we set up a Web site dedicated solely to the “total novel” project.

MG: Does that mean that there is a different Web site developed for every new project/book?

Soliani: Ideally, yes. Every book of this type has its own characteristics and peculiarities; each story has a developing history of its own …

MG: So each new site details the step-by-step development of how the story unfolds?

Soliani: Right. For example, you can consult the version of the total novel as it was in, say, 2003, if that’s what you want to do. You just go to the online edition of La potenza di Eymerich [the story was published as a book by Bacchilega Editore in 2004], and you can check out how it was at any time during its creation [see here and here].

MG: Because it was always evolving and changing online?

Soliani: Right again. And it is always going to be there in that “historical” form. If you want to access it and see how things stood then, you can. And you can intervene if you want to. Now we are trying to launch an international edition. The idea is so vast, why limit it only to Italy?

MG: What would you do in that case? Write a first chapter in English? I mean to say, is your English up to it? Then again, I suppose the limitations and style of your English would affect the direction that the work takes, wouldn’t it? English is no longer a national language, but a lingua franca, an international shorthand for ideas, a means to an end, not the end in itself.

Fiorini: We all use English in our jobs and in our lives. It isn’t

really such a problem.

MG: Jobs? What do you do when you aren’t writing?

Fiorini: I’m a video technician.

Soliani: I work as an accountant for a British law firm with branches all over the world. Honest!

Andreetto: I am a journalist, and Guglielmo is a lawyer. I should also add that the next edition of our total novel will be in Spanish. It will be set in Argentina, and we’ll be working with the guys from [a Buenos Aires-based writing-collective called] FM la tribu. English is not the only lingua franca. I mean, Spanish is one of the most widely spoken languages in the world.

MG: Let’s move on and talk about the second, unfinished Kai Zen book. What can you tell us about it?

Fiorini: We are working on [he lets out a whooping laugh] … eh, different hypotheses. Some of us are busy on Book 2, while others are already looking beyond it. To be honest, we’re in a bit of a mess at the moment, what with jobs, families, and so on, and we’ve got so many ideas and projects lining up for the future. Regarding Book 2, my colleagues [there’s such a sudden uproar over this highfalutin word, that a waitress in the hotel lobby drops a pot of coffee] … yep, my colleagues are working away on Book 2. They’re about halfway through it, and Book 3 is also off the ground. The historical research is piling up. Fresh ideas just keep coming!

MG: How does each new project start? Does one of you propose an idea, then see how the others react?

Andreetto: It’s a matter of intuition, the way it happened after we’d finished La strategia dell’ariete. The second book–the working title is Mi Buonos Aires querido–was conceived as a sequel, and the third (still untitled) follows on from there, though each book was meant to be quite distinct. You know, a totally different, wholly

independent story.

We start by working on a general theme: blood in the first book, metal in the second. OK, the themes are different, but the idea is to handle them with the same driving impulse through Books 1 and 2, look­ing at the world from a certain point of view. Book 3 was a new development; it just fell into place. It’s theme is money. … We were invited to a literary festival in Benevento [Italy], and we were reading and talking about an article in the daily newspaper, Il Corriere della Sera, which spoke about the origins of today’s multinational enterprises …

Soliani: Colonialism!

Andreetto: You know, the East India Company, the South Sea Bubble, that that sort of thing. We’d been talking about the economy–times being what they are–and the article had caught our attention. So we started to work on this theme, too. Who knows what will come of it? [Here he looks pointedly at Bruno Fiorini, the historian of this group, who champions Book 3.] Still, it is an incredibly interesting historical moment–AD 1600, exploration, automata, the start of the Enlightenment, Descartes, money being made all over the place–the whole world changing overnight–and then there’s a moment when money is no longer weighed or made in gold, and the whole thing explodes, and implodes, all the way up to the present global crisis. [Again, he looks at Bruno.] We’ll see. We will see …

MG: Publishing a book, and publishing online, are presumably totally different things. For the book you need the backing of a publisher; online, you are free to do whatever you want. Which do you prefer?

Andreetto: We enjoy trying to do both. We still live in a world where paper rules, of course.

MG: Though you publish your books under a Copyleft licensing scheme, don’t you?

Soliani: La strategia dell’ariete was published in Creative Commons or Copyleft, which means that the text can be used in whole or part by anyone at all. Even you, Michael! You can download the book from the Internet, and do what you like with it. But not for profit-making activities. You can chop it, change it, do whatever you want to do …

MG: Did publisher Mondadori like the idea of Copyleft?

Soliani: We insisted, and they accepted, though they didn’t seem to know what it was all about. They realized that it was part of the Kai Zen project, and that it is how we work. It’s our history, if you like. Maybe they understood that it was a frontier that they had to cross. Maybe they were looking towards the future, too. La strategia dell’ariete was, however, the first book that Mondadori had ever published with this particular kind of license.

MG: Have they continued with the trial?

Andreetto: With another pair of writers, I think, though I’m not certain. So far Mondadori have only published one short graphic novel written by Wu Ming 2 for an anthology entitled Alta criminalità.

Soliani: Most people don’t know what it is, or how it works.

MG: Me, for example! How does Copyleft work? What are the advantages for you, the authors?

Soliani: We don’t believe that the printed book will disappear and be replaced by PDF files, but as a way of sampling a book, of getting a first “taste” of a story–a bit like hearing a song on the radio–Copyleft is a new approach, and we think that it is positive. A lot of people do buy the book after playing around with it on the Net.

MG: We promote our new book [A Visible Darkness] by offering a sample chapter on our Web site. [This “old-fashioned” approach incites loud and riotous laughter from the Kai Zen guys.]

Fiorini: We work with readers and writers who are more–extreme, let’s say, more radical. For them, it’s hands-on, and start ripping! But we believe that the exposure and the Web interest more than cover the risks …

Andreetto: And it is a form of intellectual honesty, too. The printed edition of our book costs €16.50. Not everyone can go out and spend that much money. But if they read the book [online] and like what they read, they may just buy it anyway. In the second place, if you decide that you want to give it to someone as a gift, then you have to go out and buy it! Remember, readers, if you print it out from the Net, use recycled paper. If you don’t, then you’re a bastard!

Soliani: In many remote places, out in the mountains, for example, and in small towns and villages in the country, there are no book­shops, no libraries; but there is the Internet.

Fiorini: Our “shelf-life” is unlimited! Right now, the printed edition [of La strategia dell’ariete] is momentarily out-of-print. … People did buy it! But you can download it, if you want. You can read it, review it. Just yesterday, we were talking to classes of teenagers, school kids, and we advised them to read it online. Maybe in the future, when they start earning money … Who knows?

Andreetto: In this form the book has an unlimited print run.

Fiorini: Wow, worldwide and virtually free!

Andreetto: Then again, the reader can alter the online version. In our books, the story is central, not the writer. Anyone can take a bit out of our book–a character, a place, or an idea–and use it in the novel or story that he or she is writing. They can change it, write a new ending, do whatever they like with it. We really are the literary equivalent of the Nine Inch Nails. They publish their music free on the Net, and they still sell CDs–not only in MP3 format, but in “Garage Band” format, too, so other musicians can remix, reuse, add, take away, elaborate, or rewrite the original material. Then they publish the fans’ remixed versions of their music on the Nails’ Web site. Now, that means that there are literally thousands of versions of their songs going around. That’s what I call publicity! In our case, there’s a creative exchange between the writers and the readers; in their case, it’s between the listeners and the musicians. This is what using the Net in a meaningful way amounts to.

Fiorini: Jadel’s right. I mean, this is the great advantage of working and writing via the Net. It’s totally unrestricted, and that can be a strength. Can you imagine how many people have “lifted” a character or an idea from a story or a novel, and then they’ve been made to pay for it by some guy’s lawyer?

Andreetto: Look at you two. I mean, you stole Immanuel Kant [for the first Michael Gregorio novel, Critique of Criminal Reason, 2006].

MG: Oh yeah, right. Still, it’s a bit late for legal action now. Kant’s been dead for over 200 years.

Fiorini: Anyway, that’s what we do with the total novel and on the Web. We create a character, an idea, a story, and we offer it to anyone who is interested. You can add to his life, his back story, you can give him a new life, a new career, or make him move in a totally different setting. That’s our contribution, let’s say.

La Potenza di Eymerich 6: Manovre orchestrali nell’oscurità

Immagine di La potenza di EymerichAnno del Signore 1365, nella città di Potenza.

Voci. La morte viene dalla vita. Acqua fosforescente. Non posso muovermi. Unisciti a noi. Bevi alla fonte dei giusti. Non sento la mia voce. Luce accecante. Bevi alla fonte dei giusti. Chi sei, donna? Non sento la mia voce. La morte viene dall’acqua. Bevi. Luce accecante. Unisciti a noi, bevi. La morte viene dall’acqua. Buio.

Eymerich si svegliò sudato. Era nella sua cella. Come ci era arrivato? Dalla luce che filtrava capì che il sole era già alto, e questo non fece che aumentare il suo nervosismo. Era furibondo. Con Modesto, certo, e con sé stesso per
essersi fatto abbindolare come un ingenuo. Cercò di riordinare la confusione che popolava la mente.
“Creature del Demonio. Quel frate indegno mi ha portato in un covo di creature del Demonio. Mi hanno fiaccato
con i loro malefici e ridotto in loro potere, per chissà quanto tempo. Mi hanno fatto bere l’acqua di quel lago, ricettacolo del male. L’ho poi bevuta? Non ricordo.”
Uscì dalla cella, risoluto a trovare Modesto ed estorcergli la verità. Fu inutile. Del frate, nemmeno l’ombra.
Arrivato al portone del convento, sentì bussare. Aprì, e vide di fronte a sé una giovane, isterica. “Devo parlare con frate Fernando!”
“Femmina impura, come osi rivolgerti in questo modo a un ministro di Dio,” le urlò in faccia Eymerich, ma la donna non se ne diede per inteso.
“Per pietà. Sono gravida, e contagiata dal morbo oscuro. Al lazzaretto è morta un’altra donna oggi, io non ci voglio andare. Fernando non può rifiutarmi il suo aiuto!”
“E perché mai non potrebbe?”
“Per tutte le volte che mi ha cercata…” La donna esitò, timorosa.
Il manrovescio fu così forte da farla stramazzare a terra. “Bada, non aggiungere altri peccati a quelli che già pesano sulla tua anima! La menzogna è la musica di Satana!”
“È la verità!” rispose in lacrime.
“Vattene, e ringrazia, ché ben misero castigo hai avuto per la tua impudenza.”
L’Inquisitore richiuse il portone. La sua ira non era ancora sbollita, ma quest’ultimo incontro poteva innescare sviluppi inattesi e interessanti. Quella donna sarebbe stata un’arma formidabile. Voltandosi, vide Severo che si avvicinava. Troppo lontano per essersi accorto di qualcosa, pensò Eymerich, pronto a sfogare la sua rabbia su una nuova vittima. “Severo, dove sono i tuoi confratelli?”
“Non so, padre. È da stamani che non li vedo.”
“Bene. Allora, se non ti dispiace,” dapprima calma, la voce divenne sempre più rabbiosa, “me lo spiegherai tu, cosa succede in questa città, dove nascono mostri, dove sottoterra si celebrano riti pagani, e dove i frati francescani anziché onorare Nostro Signore bestemmiano il Suo Nome insieme a megere serve di Satana.”
Severo cadde dalle nuvole. “Cosa succede, padre? Io non so nulla di quello che dite.”
L’Inquisitore era livido e stava per saltare alla gola del francescano, che però continuò a parlare, molto più loquace del solito. Disse che Modesto e Michele spesso lo tenevano all’oscuro di quello che facevano. Perché era quasi un ragazzo, da poco arrivato in città, mentre gli altri due avevano passato insieme buona parte della loro vita. Sapeva, questo sì, che entrambi i suoi confratelli erano seguaci di Lullo, ma anche su questo non avrebbe saputo aggiungere altro, ignorante com’era in materia. Eymerich si placò. Quel giovane frate da subito gli era parso mal assortito coi suoi confratelli, e in effetti il suo racconto era plausibile. Severo se ne accorse, e approfittò per chiedergli dettagli su ciò che aveva scoperto. Ma l’Inquisitore rimase vago, e subito dopo si congedò.

Anno del Signore 1365, Napoli, Maschio Angioino.

Seduta sul suo scranno Giovanna I d’Angiò aprì la missiva che il messo papale le aveva recapitato. C’era scritto il nome del nuovo emissario pontificio, un francescano di nome Severo; e la richiesta di tenersi all’erta, in attesa di istruzioni. La Regina doveva molti favori a questo Papa, non ultimo l’appoggio alle recenti nozze con Guglielmo d’Aragona. Scelta eccellente: il prode principe consorte aveva già gentilmente liberato Napoli dalla sua presenza, partendo in guerra al seguito di Enrico di Trastamara.
Giovanna si sedette allo scrittoio. Poco dopo un cavaliere usciva dal castello, recando due lettere: la prima era indirizzata al Giustiziere di Basilicata, l’altra a frate Severo da Benevento.

Anno del Signore 1365, nella città di Potenza.

Il frate guardiano fece cenno a Eymerich di entrare nella cella. “Stamani non eravate alle laudi, padre. Qualcosa di grave?”
“Dormivo. Ma dovrei piuttosto dirvi dove sono stato ieri.”
Per sommi capi gli raccontò la sua esperienza del giorno precedente. Il frate era sbalordito.
“Fernando, in città vengono celebrati riti blasfemi, e nessuno ne sa niente. Perfino voi volete farmi credere di esserne all’oscuro! Mi chiedo quale sia il vostro modo di vigilare contro i nemici di Cristo. O forse dovrei chiedermi quale motivo abbiate per lasciare alla mercè di Satana il gregge di cui un giorno dovrete rispondere.”
“Oh no, padre, perdonate la mia negligenza,” squittì il frate.
Eymerich sogghignò: Fernando ormai era un libro aperto. Per farlo crollare non c’era stato neppure bisogno di accennare alla donna di poco prima – cosa che in ogni caso non aveva intenzione di fare, almeno per il momento. Disse invece: “Ho incontrato Severo, poco fa.”
“Ah, il ragazzino borioso,” sospirò il frate. “Viene dai palazzi, e si vede. Sapete? L’ultimo inviato papale giunto qui non ha chiesto né di me, né di voi. Invece voleva parlare proprio con Severo. Assurdo. Chissà poi di cosa. Beghe di nobili, probabilmente.”
“Probabilmente,” ripeté Eymerich a voce bassa. Ma in realtà era sconvolto dalla notizia: era evidente che il Papa intendeva scavalcare sia lui che Fernando. Mentre salutava rapido il frate, non poté fare a meno di pensare: ecco perché oggi il ragazzo era così amichevole. E questo imbecille ancora una volta non ha capito nulla, e ciarla incautamente. Davvero l’uomo ideale cui affidare incarichi delicati.
Uscito dalla cella, decise di ripercorrere da solo il cammino sotterraneo fatto con Modesto. Per riordinare la memoria. Era giorno pieno, e ormai sapeva cosa aspettarsi: stavolta nulla l’avrebbe preso alla sprovvista.

Novembre 2054, Scanzano Ionico, Repubblica di Lucania, Federazione degli stati d’Europa.

L’Imam raggiunse infine l’amico, nel suo laboratorio. Stanton aveva terminato alcune prove empiriche sul processo di trasmissione, e ora i due stavano ricapitolando i punti salienti, come per abituarsi a una situazione così terribile da non sembrare reale.
“Quindi, se ho capito bene, l’idea è di inviare il messaggio verso le coordinate spazio-temporali in cui è più probabile che andranno a finire le scorie, e cioè a Potenza nel 1365.”
“Sì, Karima, è pressappoco così. Anche se, stando ai miei calcoli, il flusso percorre cammini obbligati: se quest’anno viene inviato da qui un fascio di psitroni nel 1365, esso troverà a Potenza il suo luogo naturale di destinazione; se invece lo mandiamo nel 1854, allora la destinazione naturale sarà Abriola, e così via, come mostrava il diagramma.”
“…E come confermano i documenti storici. A proposito, il fatto che quasi tutte le epidemie registrate dalle cronache fossero localizzate vicino a piccoli fiumi o laghi, secondo te può avere qualche importanza? Non so, l’acqua potrebbe fungere da catalizzatore per la ricezione…”
“Sì, può essere. L’acqua è un conduttore essenziale per certi tipi psitronici. Ma non posso essere sicuro che togliendola dal luogo di arrivo interromperemo lo scarico delle scorie.”
“Dobbiamo sperare che sia così, visto che è forse l’unica strada che possiamo tentare.”
I due si guardarono. Karima continuò: “Bisognerà modificare l’impianto in modo che trasmetta il messaggio, e dirigerlo proprio verso la data-obiettivo.”
“Oh, fosse solo per quello… Ho elaborato un algoritmo in grado di provocare e indirizzare la trasmissione. È già configurato per il 1365. Esiste un certo rischio di dispersione, ma ho stimato una varianza assai ridotta: in parole povere, una piccola parte del flusso giungerà in momenti imprecisati fra il 1351 e il 1380, ma la maggior parte arriverà nell’anno prestabilito. Il vero problema sarà accedere al quadro generale di controllo dell’impianto. Come sai, non sono stato invitato all’inaugurazione; inoltre tutti i responsabili del progetto mi conoscono, e presentandomi là potrei alimentare sospetti. Allo stesso tempo, mi spaventa l’idea di far compiere simili operazioni a un’altra persona, seppur fidata. Dovrei andarci io.”
“Infatti ci andrai tu, Peter. Ma non al ricevimento.” La donna aprì la mano, dove teneva un piccolo disco di silicio.
“Questo è il pass riservato al personale tecnico di manutenzione straordinaria. Non chiedermi come ho fatto ad averlo. Quelli che lo usano vanno all’impianto molto di rado, quindi non dovresti dare nell’occhio. Il nome registrato nel pass è Peter Hammill, spero ti faccia piacere.”
Stanton sorrise: adorava quella donna.

 

Illustrazione di Claudio Madella

C’è un altro uomo? Un uomo radioattivo?

“Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle. Un libro deve essere un pericolo” (E.M. Cioran)

radioattivoSi torna al nucleare? E noi torniamo al 2004. Da questa settimana pubblicheremo, a puntate, su : kaizenology : il romanzo totale di cinque anni fa, una sorta – concedetecelo – di Verdenero ante litteram, “La Potenza di Eymerich“, firmato da noi e da un collettivo nato per l’occasione, anzi “durante l’occasione”, Emerson Krott.

Alla stesura del testo hanno partecipato anche Wu Ming 5 e il Laboratorio Scripta Volant di Potenza e una serie di interessantissimi illustratori. La versione cartacea, in copyleft e carta ecologica, è stata pubblicata da Bacchilega Editore.

Partiamo canonicamente dall’introduzione di Valerio Evangelisti:

La vitalità e la credibilità di un personaggio letterario può essere verificata anche attraverso un fenomeno non nuovo: il tentativo di persone diverse dall’autore di farlo agire per proprio conto. Ciò è abbastanza normale se i media impiegati sono diversi. È’ piuttosto raro se il medium è uno solo: la narrativa.
Questa sorte è toccata al mio inquisitore Nicolas Eymerich, che già vantava due apocrifi: un romanzo mai pubblicato, Altereymerich, compilato su mio spunto da un gruppo di appartenenti alla mailing list dei lettori più fedeli, e un’antologia di racconti – I segreti di Eymerich, Delos Books, 2003 – frutto di un concorso indetto dal sito Grimalkin, specializzato in giochi
di ruolo. Sono poi reperibili in rete ulteriori apocrifi, per lo più in chiave satirica. Ed ecco questo La Potenza di Eymerich del collettivo Kai Zen, dopo del quale potrei dirmi soddisfatto. Ho avuto in vita la sorte toccata, dopo il decesso, ad autori immensamente più popolari di me, come Ponson du Terrail, Emilio Salgari, Maurice Leblanc, Arthur Conan Doyle, Rex Stout, Ian Fleming e non molti altri. Vi è chi ha ripreso il mio personaggio più noto, quasi fosse indipendente da me, e gli ha fatto vivere nuove avventure. Cosa che tanti scrittori, finché viventi, non accetterebbero mai, e anzi considererebbero un oltraggio. In realtà, il mio caso (per meglio dire: il caso di Eymerich) è molto diverso da quello degli autori che ho elencato. Se la scintilla che è alla base è indubbiamente la fama che si è conquistato il protagonista di otto dei miei romanzi – e presto di un nono – lo svolgimento successivo ha poco a che fare con le regole del feuilleton e dei suoi derivati, incluso il cinema di genere. Discende piuttosto dal tenermi a contatto con la società in cui vivo, fino a essere io stesso a sollecitare la proliferazione di apocrifi. Mi spiego. L’esistenza di Internet può facilmente paragonarsi, ai miei occhi, al passaggio dal manoscritto alla stampa. In quella fase storica, l’unicità o l’esistenza in poche copie di un originale andò perduta. Le opere di un autore prima misconosciuto ai più poterono moltiplicarsi in tutto il mondo civile, e apparire, sia pure a distanza di tempo, in svariate edizioni e traduzioni. Va da sé che anche i contenuti cambiarono. Ora l’autore scriveva con la consapevolezza che i parti del suo ingegno erano in grado di raggiungere un pubblico vasto e cosmopolita, ancorché minoritario. Si adeguò. Se prima dell’invenzione della stampa il testo poteva toccare solo tematiche destinate a una élite, o addirittura a una singola comunità, adesso era d’obbligo passare ad argomenti di interesse generale, anche al di là delle
frontiere regionali o nazionali. Un bell’incentivo, per chi aveva qualcosa da comunicare. Si passò rapidamente dai codici contenenti solo libri sacri, canti o preghiere, oppure trascrizioni diligenti di opere greche o latine (siano benedetti i benedettini), a un ventaglio tematico molto più largo: filosofia, poesia, narrazioni epiche o leggendarie, scritti profetici, resoconti storici. Furono per la prima volta divulgati contenuti proibiti: esoterici, alchemici, erotici, eretici. Tenere sotto controllo questa letteratura divenne uno dei primi scopi dell’Inquisizione.
Non seguirò il processo dell’allargamento progressivo della fascia dei lettori, legato non solo al grado di alfabetizzazione, ma anche al raffinarsi e allo sveltirsi dei processi di stampa. Sostanzialmente, si trattò dell’espansione nei secoli di tendenze già attive in età medievale, e di un’evoluzione tecnica dagli immediati risvolti sociali. L’unica vera accelerazione si ebbe con il romanzo d’appendice che, attraverso la lettura collettiva(con i portinai che leggevano le puntate de I misteri di Parigi al condominio riunito; come sarebbe successo, meno di un secolo dopo, ai primi utenti televisivi radunati al bar), democratizzò
enormemente la fruizione letteraria. Per capire quanto ciò fosse legato al perfezionamento del medium, basta leggere Illusioni perdute di Balzac, che quei processi analizza con straordinaria perspicacia. Il quadro cambia radicalmente solo con l’avvento di Internet, paragonabile, per portata storica, al passaggio dal manoscritto alla stampa. Siamo ancora nel mezzo del processo ed è difficile scorgerne tutte le evoluzioni. Difficile soprattutto per gli editori, che, con la goffa scommessa sui cosiddetti “e-books”, hanno per un attimo cercato di mantenere l’antica priorità in nuovi abiti. Senza considerare che ogni cambiamento di portata così ampia del comunicare investe necessariamente aspetti contenutistici (solo un pazzo leggerebbe on line il “Don Chisciotte”: sarebbe come leggerlo da un televisore), ruolo dell’autore, modalità di fruizione.
Ciò che si è anzitutto ampliato enormemente è il bacino degli utenti, sia in qualità di lettori passivi che di creatori (o anche rielaboratori) attivi. Lo scrittore dotato di cervello sa che non deve temere questo fenomeno, né che testi suoi circolino in maniera selvaggia. Come la televisione non abolì il cinema, né tantomeno la radio, così la dimensione web non intacca per nulla la quota di diritti spettanti all’autore di un libro cartaceo. Al contrario, la dilata. Tanto che, se ha un alleato fedele, quello è proprio la “pirateria”. Con buona pace dello scrittore imbecille che, da un anno in qua (2004 N.d.KZ), ha messo la propria immagine al servizio di una campagna contro le contraffazioni cinematografiche.
Ma lasciamo perdere gente del genere. Sta di fatto che, a mio parere, chiunque scriva deve tenere presente il nuovo assetto mediatico che si sta profilando. L’opera cui ha dato vita, nell’immediato futuro, non sarà soltanto sua. I personaggi che ha creato potranno finire in mani altrui. Che problema c’è? Emilio Salgari non fu affatto danneggiato dai figli Omar e Nadir, che ne seguirono le tracce. Non è difficile riconoscere l’unicità di uno stile. Se poi Sandokan o il Corsaro Nero passano ad altri, be’, per l’autore è un segno solo confortante. Nella peggiore delle ipotesi, dovrà lottare per rendere le proprie creature ancor più singolari e ancor più vincolate all’identità di chi, per primo, le ha fatte vivere. Un sfida magnifica e stimolante, in tempi di Internet. Tutto ciò per dire che apprezzo enormemente questo La Potenza di Eynerich, frutto di una sfida in rete lanciata dal collettivo letterario Kai Zen, e ripresa da un gruppo di autori che hanno deciso di chiamarsi “Emerson Krott”. Non so in quale misura il loro Eymerich somigli al mio (lo decideranno i lettori).
Certo è che “Emerson Krott”, singolare parto di un web usato al meglio, ha saputo riprendere con bravura una delle idee di fondo che ispiravano il mio ciclo sul terribile inquisitore: fare riemergere in ambito letterario, sotto le mentite spoglie del romanzo “di genere”, i temi di portata sociale, politica, economica che la narrativa corrente trascura.
Kai Zen ed Emerson Krott hanno, secondo me, raggiunto lo scopo. Preso atto di questo, la somiglianza del loro Eymerich al mio risulta irrilevante. Il mio auspicio è che, grazie a Internet, cento Eymerich sboccino, cento visioni critiche del presente gareggino. Ogni passo in questa direzione lo sentirò come mio, alla faccia del diritto d’autore.