Carta da parati (Borghesi piccoli piccoli ai tempi del colera)

Pubblicato su Tempostretto

 

Tuuu bella e triste tuuu

La voce acuta di Gianni Bella riempiva l’incrocio deserto sotto i balconi di casa di Juri. Veniva fuori dalle casse di una Fiat Punto con la portiera sinistra aperta. Un signore col telefonino girava intorno all’auto riprendendola da ogni lato per chissà quale motivo.

Juri non tornava a casa da giovedì, quando lo aveva chiamato sua moglie, supplicandolo di fare attenzione, perché la situazione stava diventando pesante, il telefono squillava in continuazione ed erano quasi sempre giornalisti. Era pure apparsa una scritta di insulti e minacce sul muro davanti al loro portone. La “situazione” era cominciata una decina di giorni prima, quando in rete aveva preso a circolare una lista di nomi di persone che erano partite per la settimana bianca facendo scalo in un aeroporto della zona rossa poco prima del lock down completo del paese a causa del virus. Di ritorno non si erano autodenunciati alle autorità sanitarie come avrebbero dovuto, ma la cosa era venuta fuori lo stesso, e nel modo peggiore, perché uno dei gitanti si era ammalato, con tanto di ricovero d’urgenza, ed era risultato positivo al virus. Il fatto e la lista erano divenuti di dominio pubblico nel giro di un post, condiviso migliaia di volte. Il nome di Juri era su quella lista.

Se n’era accorto quando avevano cominciato a tempestarlo di telefonate amici e parenti chiedendogli se stesse bene e che cosa gli fosse venuto in mente di andare in vacanza sulla neve proprio in mezzo a tutto il casino scoppiato per la pandemia. Juri li aveva rassicurati tutti: lui in settimana bianca non c’era andato, non ci aveva nemmeno pensato, in realtà. Su Facebook dicono di sì, gli avevano risposto, ci sono pure le fotografie. Juri non aveva l’account Facebook e così gli avevano inviato su Whatsapp la foto che un suo conoscente teneva sui suoi profili social senza che nemmeno lui lo sapesse: abbracciati in tuta da sci con un rifugio dietro le spalle. Ma sono state scattate l’anno scorso! aveva protestato. Niente da fare, non c’era stato verso, anche perché il suo amico, al viaggio incriminato, aveva partecipato davvero. Ormai il tam tam era partito e lui era stato additato insieme a tutti gli altri come untore, irresponsabile, idiota viziato membro della casta che comanda da sempre in città. Massoni-porci-figlidipapà-larovinadiquestopaese. Da più di due mesi la gente non poteva uscire se non per buttare la spazzatura, approvvigionarsi e far pisciare il cane ed era in piena e costante crisi di nervi, anche più del solito. Il signore col telefonino e l’auto da cui Gianni Bella cantava a manetta invece sembrava tranquillo, come se tutta quella storia, il virus, le migliaia di morti, la quarantena a tempo indefinito ordinata dal governo, non lo riguardasse affatto. Fischiettava, riprendeva fantasmi col telefonino e fumava. Juri non ne era stupito, lo conosceva di vista e sapeva che non ci stava tanto con la testa da quando qualche anno prima aveva perso un figlio. Leucemia, gli sembrava di ricordare.

Negli ultimi giorni, Juri aveva dormito in negozio: lo teneva chiuso proprio da giovedì e aveva una branda nel retrobottega, ma non ne poteva più di rimanere confinato lì dentro con la saracinesca abbassata nutrendosi di merendine. Stavolta Carla, sua moglie, sempre per telefono, si era mostrata più serena, i giornalisti non chiamavano più, la scritta minacciosa era stata cancellata. Del resto lui aveva parlato con l’azienda sanitaria, con il comune e anche con un sostituto procuratore della Repubblica incaricato dell’istruzione dell’indagine. Che lui non c’entrasse nulla era evidente, quantomeno agli inquirenti istituzionali. Per il popolo della rete il discorso era diverso, gente che credeva alle sirene, alla Terra piatta, alle catene di sant’Antonio su Whatsapp avrebbe di certo diffidato di una smentita circostanziata, perché puzzava di complotto, di depistaggio dei servizi segreti, di gruppo Bilderberg e di chissà cos’altro. E comunque anche se in settimana bianca a quel giro non c’era andato, altre volte invece sì, quella gente la frequentava, era uno di loro e il fatto che stavolta avesse avuto fortuna non lo emendava per nulla. Era feccia anche lui, tanto quanto quegli azzimati sciatori figli del privilegio. Feccia con le Hogan ai piedi e il giubbotto Invicta di tessuto tecnico.

Sentirsi moralmente superiori agli altri, proprio a quegli altri che fino a un momento prima erano in cima alla scala sociale, alla catena alimentare, e poterglielo sbattere in faccia in pubblico, con la stessa sfottente arroganza che solo ieri era stata prerogativa di quelli, era una tentazione troppo grande. Del resto, cos’altro c’era da fare in città per il momento?

Ci sarebbe voluto del tempo per convincere tutti che Juri non aveva niente a che vedere con quella storia, e con molti non ci sarebbe stato verso, sarebbero rimasti arroccati sulle loro convinzioni. Gli bruciava,  ma doveva farsene una ragione.

Aveva preso un sacchetto della spazzatura riempiendolo di tutti i resti dei suoi pasti frugali degli ultimi giorni e si era messo in strada dopo le sei e mezza, al primo imbrunire. Dal negozio a casa c’era un chilometro e mezzo e col sacchetto avrebbe dato meno nell’occhio, a patto di non avvicinarsi troppo ai cassonetti. Fino a lì le pattuglie della polizia municipale non lo avevano fermato e nemmeno quelle militari, né era stato additato dagli zelanti guardiani condominiali spesso appostati ai balconi. Ormai era sotto casa. Prima di avvicinarsi al portone si diresse, questa volta sì, ai cassonetti situati sul lato meridionale della piazza sulla quale sbucava la strada. In prossimità, vagolavano curiosi membri di una umanità varia e bizzarramente abbigliata. Un vecchio signore con un completo magenta a scacchi, papillon a pois e scarpe inglesi con sopra ghette bianche chiuse da bottoni neri si avvicinava reggendo il suo sacchetto di immondizia sul pomello intarsiato del bastone da passeggio. Una cinquantenne in tubino nero di velluto, smalto viola alle unghie lunghissime e mascherina chirurgica sul volto aveva appena depositato il suo sacchetto e si stava già allontanando, battendo rapida i tacchi alti sul marciapiede. Un giovane, bardato di sciarpa di seta nera stretta intorno alla faccia e inguainato in una tuta di foggia militare sempre nera tipo NOCS, teneva davanti a sé un robusto guinzaglio di cuoio e si comportava come se all’estremità ci fosse un cane, schioccava la lingua sul palato e mormorava Buono Achille, buono… ma attaccato al gancio non c’era niente.

Juri aveva rallentato per rispettare la distanza di sicurezza mentre il signore anziano aveva gettato il suo involto con uno scatto secco del polso per liberarlo dall’impugnatura del bastone. Il ragazzo col guinzaglio però non aveva avuto la stessa prontezza di Juri nel rallentare. Appena il signore si era voltato, accortosi della vicinanza, aveva cominciato a sbraitare: “Tenga quella bestiaccia lontana dalle mie ghette o la denuncio!”

Il ragazzo non si era scomposto: “Achille è buonissimo. È lei invece che finirà per sputarmi addosso, la smetta.” Il vecchio si era allontanato senza rispondere.

Juri aveva lanciato il sacchetto da dove si trovava, per non rischiare, e si era diretto di nuovo verso casa. In giro non c’era più nessuno, a parte il tipo della Fiat Punto. Rovistare in tasca fino a riconoscere al tatto la sagoma delle chiavi era un gesto talmente abituale fino a pochi giorni fa, che ritrovarlo gli diede una sensazione di conforto, di sicurezza per un lampo di quotidianità riemersa dal buio. Ma poi tornò il buio.

Non si puòòò moriiire deeentrooo E morendo me ne andaaaiiiii

Juri si svegliò in preda a un mal di testa fiammeggiante. La nuca gli pulsava e aveva la bocca impastata. La stanza era in penombra, ma non gli sembrava affatto casa sua, anzi non gli sembrava di averlo mai visto, quel posto. Alle pareti c’era una carta da parati a fiori arancione orrenda e un mobile scuro in fondo, forse un tavolo o una credenza, da dov’era steso non riusciva a capire bene. Fece leva sui gomiti per alzarsi, ma qualcosa lo trattenne. Abbassò lo sguardo: una cintura lo stringeva all’altezza del torace, tenendolo fermo. Man mano che diventava più lucido, nuovi particolari inquietanti si delineavano. Provò a muovere le mani e le gambe, ma era impossibile perché erano fasciate da giri e giri di nastro adesivo telato che gli bloccavano gli arti. Dimenandosi avvertì sulla schiena il disegno sottile e puntuto della struttura su cui era disteso. Una rete nuda da branda, con ogni probabilità. L’aria era satura di fumo stantio, e Gianni Bella a tutto volume imperversava ancora. Essere consapevole dell’odore dell’ambiente, lo indusse a respirare con la bocca, e fu allora che il panico gli si scatenò nel cervello come una muta di cani impazziti e latranti. Aveva il nastro adesivo anche sulle labbra.

Il ritmo cardiaco ebbe un’impennata e Juri andò in iperventilazione per qualche minuto, gli occhi appannati dalle lacrime e la gola secca come una cava di pomice. Passò un tempo che non avrebbe saputo definire, anche perché la canzone continuava ad andare in loop. Ci vollero dieci o forse quindici ripetizioni di quel ritornello perché recuperasse un’oncia di lucidità, ricordandosi in che occasione, di recente, aveva sentito quella canzone.

La fiamma di un accendino balenò alla sua sinistra. L’uomo della Fiat Punto aspirò un’ampia boccata della sigaretta, premette qualcosa sullo schermo del suo telefonino e glielo puntò addosso. Poi cominciò a parlare con voce sommessa. Era in canottiera, seduto accanto a lui.

“Siamo in diretta Facebook. Te lo dico perché devi capire, sai. È importante se capisci prima… Tu e tutti gli altri, è importante. Eravamo così contenti quel pomeriggio, io e Filippuccio mio, ma sai come? Eeehhh, contentissimi. Da quando ci era arrivata quella diagnosi tremenda tra capo e collo non avevamo avuto neanche un minuto di luce, capisci? Come se ci si fosse chiuso un coperchio sopra, e vagavamo a tentoni, cercando un interruttore che non c’era. Non è che fino ad allora la vita ci avesse trattato bene, insomma, mia moglie mancata quando Filippuccio era piccolo e tutto il resto, ma vabbè, non ci lamentavamo. Poi però anche quella bastardata della leucemia dio non ce la doveva fare, no. E invece sì, ce l’aveva fatta. Comunque te la faccio breve. Mesi di terapia, mesi a trattarlo come una porcellana, come un cristallo delicatissimo, come un fiore da innaffiare con due gocce, non troppa luce né troppo poca, aria sì ma vento no, mollichina a mollichina e alla fine il dottore aveva sorriso. Me lo avevano dimesso, guarito. Ancora debole, ma con un altro poco di pazienza tutto andava a posto. E passa una settimana, e passano due settimane e passano tre e quattro e dieci settimane e tutto va bene e noi ci rilassiamo e ce ne andiamo al cinema, che c’era Guerre Stellari e a lui gli piaceva tanto. Spettacolo delle quattro così c’è meno gente, però c’erano tanti bambini che tossivano e tiravano su col naso e io mi preoccupo e penso che forse è meglio se ce ne andiamo ma il dottore aveva detto che potevamo, e avevamo bisogno di normalità e allora rimaniamo. Filippuccio passa due ore sereno, finalmente, anche se ogni colpo di tosse di quei bambini di merda per me è una coltellata, ma perché non se li tengono a casa i genitori, dico io? Ma in fondo il motivo è lo stesso mio e di Filippuccio: per avere due ore di serenità, tanto a chi vuoi che faccia male un colpo di tosse? E te lo dico io a chi… Due settimane dopo Filippuccio era di nuovo ricoverato con la polmonite, e non è più uscito. Capisci quindi perché, lo capisci, testa di cazzo perché non te ne dovevi andare in vacanza e di certo non te ne dovevi andare in giro dopo?”

Juri avrebbe voluto urlare che lui non c’era, che lui non c’entrava niente, ma quello non avrebbe ascoltato e comunque il cerotto gli impediva di parlare. Quando arrivò la prima martellata non poté far altro che mugolare. In attesa della seconda, si voltò verso la parete con quegli assurdi fiori arancioni. Gli vennero in mente le ultime parole di Oscar Wilde, chissà dove le aveva lette: “O se ne va quella carta da parati o me ne vado io.”

 

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Il coming-out di un razzista (riflessioni al margine di un burrone)

Una volta mi sottoposero una specie di test in forma di storiella. Sei un naufrago alla deriva su una zattera, insieme ai tuoi due figli. Quello piccolo è debolissimo, ne ha per poche ore, e sai per certo che i soccorsi non arriveranno prima di molti giorni. Hai acqua ma non cibo e anche tu e il figlio più grande siete allo stremo, per cui se non trovi una soluzione morirete tutti e tre di fame. Cosa fai? La soluzione razionale (quella che all’epoca almeno mi prospettarono come tale) è la più orrenda: uccidi il figlio piccolo e debole, dallo da mangiare all’altro e cibatene anche tu. Perché mi è venuta in mente questa storia riflettendo sulla situazione politica e sociale delle ultime settimane? Ci arrivo gradualmente, per ora andiamo avanti, che sulla zattera torneremo dopo.

La deriva ormai evidente della politica, quella che per intenderci è tetramente animata da protagonisti che indulgono in motti come prima gli italiani, America first, aiutiamoli a casa loro e insomma, per farla breve, tutta la politica che fa convergere il massimo dei propri apparenti sforzi nel promuovere e soprattutto nel propagandare posizioni sovraniste e misure che dovrebbero salvaguardare il paese di turno (che sia l’Italia, gli USA, l’Ungheria) dalla piaga dell’immigrazione incontrollata, e ciò erigendo muri, sollecitando respingimenti, stipulando patti innominabili con regimi impresentabili, è, a mio avviso, solo in parte frutto della generalizzata crisi economico-finanziaria mondiale. La ragione di questa che potremmo, per semplificazione, definire svolta reazionaria è dovuta, a parer mio, soprattutto alla riscoperta – da parte di molti leader parvenu che sono sciaguratamente finiti al comando negli ultimi anni (e non può certo essere un caso) – di due giocattoli vintage con i quali in passato ci si è spesso baloccati. Il razzismo e il fascismo.

Grazie, si dirà, bella scoperta che hai fatto, Salvini è razzista e lo sono i suoi elettori. Non proprio. Per quanto ne so, Salvini e altri leader del suo calibro (e risparmio la battuta) potrebbero pure non esserlo, razzisti, ma di sicuro sono dei cinici opportunisti che, in quanto tali, hanno compreso che dare una svolta di matrice razzista e fascista alla propria immagine pubblica paga in termini di consenso. La moneta cattiva, nell’odierno agire politico, ha scacciato quella buona ed ecco allora che molti leader vellicano i bassi istinti degli elettori, danno loro a intendere che non c’è niente di male ed è anzi sacrosanto prendersela con chi è diverso e spingerlo anche in malo modo fuori dal nostro “spazio vitale”. Ogni volta che Salvini recita la parte del maschio alfa con le sue mezze citazioni di sapore fascisteggiante, come non mollo, noi tiriamo dritto, me ne frego, è come se girasse la manovella di un registratore di cassa elettorale: più fa il bullo nazi, più il campanellino del registratore suona e più voti entrano. Qualcuno una volta disse, più o meno, “Non temo il fascismo in sé ma il fascismo in me” (forse Enzesberger o Longanesi o forse nessuno dei due, non sono bravo con le citazioni); ecco, Salvini e gli altri come lui quel fascismo invece di temerlo lo sfruttano.

Però aspetta, si potrebbe dire, tu metti insieme razzismo e fascismo, ma mica sono la stessa cosa. No infatti, non sono la stessa cosa, ma sono insiemi comunicanti. Razzista, nell’accezione che uso io, è chi prova fastidio verso persone di etnie diverse dalla propria, un fastidio che viene spesso razionalizzato come dovuto a una generica minaccia identitaria, economica e di ordine pubblico (io non sono razzista ma questi arrivano qua e delinquono e poi non abbiamo le risorse per occuparcene e poi insomma l’Italia dovrebbe essere degli italiani ecc.). Sono scuse. Motivazioni date a posteriori per giustificare il proprio disagio verso chiunque abbia un aspetto fisico diverso dal nostro, in particolare per africani e magrebini (il tono cromatico della pelle conta). L’idea che ci debbano vivere accanto, che potrebbero addirittura pensare di accoppiarsi con nostra figlia ci è insostenibile.

Parte tutto da qui, dal razzismo. Il fascismo arriva dopo, è la giustificazione ideologica dell’istinto razzista. Un credo politico e, ancor di più, un’attitudine, uno stile di vita, un modo di rapportarsi, che gli italiani conoscono bene. Una sintassi fatta di attivismo, vero o presunto (noi agiamo, facciamo i fatti, gli altri parlano), fatta di prove di forza e compiaciuta violazione dell’etichetta del dialogo con eventuali oppositori (alzare la voce, usare linguaggio inappropriato, troncante, irridente e spesso offensivo). La strategia prediletta consiste nell’alterare i piani logici di un normale dibattito democratico per sottrarsi al confronto e avere buon gioco sulla distanza breve (non rispondere a tono a una critica argomentata, attaccando personalmente chi la formula, è ormai diventato il protocollo di riferimento: quelli che governavano prima devono stare zitti perché è tutta colpa loro, i francesi devono pensare ai danni che ha fatto il loro colonialismo, il presidente della Commissione Europea che critica la nostra politica finanziaria è un ubriacone, quelli che chiedono la restituzione dei 49 milioni di euro di finanziamenti illeciti della Lega devono badare ai loro guai giudiziari invece di parlare, eccetera). Ma sopra ogni altra cosa, il fondamento della vulgata fascista è la personificazione del Male, del Pericolo, dell’Avversario attraverso la rappresentazione dell’Altro. L’Altro è il diverso. Il diverso è il nemico, l’origine dei nostri mali viene da fuori, dallo straniero, che mina la nostra identità, la nostra economia, la nostra armonia, la nostra salute, la nostra stirpe. Questo non lo dicono espressamente, ma il messaggio è chiaro: caro povero maltrattato elettore italiano, non è colpa tua, la situazione di sfacelo in cui ti trovi non dipende dalle tue incapacità e debolezze, ma è colpa loro. LORO!

Per i 5 stelle l’Altro prima erano i politici al governo, i potenti corrotti e stupidi, ma adesso al governo ci si sono insediati loro. E infatti Beppe Grillo, che nei suoi spettacoli di pochi anni fa promuoveva a spron battuto l’accoglienza di tutti i migranti, adesso ha invertito la rotta. Una cosa è strappare l’applauso in teatro e ben altra guadagnare voti. Per la Lega un tempo l’Altro erano i meridionali fannulloni che minavano la produttività del magnifico Nord-Est, ma adesso i voti dei meridionali servono per diventare primo partito. Lo spauracchio da agitare per serrare le fila dell’elettorato dunque è presto servito. LORO sono gli immigrati, anche se, per rendere la pillola più dorata, ce la si prende con i “mercanti di uomini” che portano gli immigrati qui, le ONG, quelli che lucrano riempiendoci il paese di poveracci, oppure si additano gli altri paesi europei che non si prendono le loro responsabilità, che affossano la nostra economia, che incrementano la criminalità del nostro paese, e poi per forza che la brava gente reagisce.

Si può obiettare con dati alla mano che la crisi sistemica italiana (e non solo italiana) non dipende certo dagli immigrati e che questi non incidono affatto sulla mancata ripresa economica; si può dimostrare che la criminalità è in diminuzione e non in aumento; si può rilevare che un paese in costante calo demografico come il nostro potrebbe avvantaggiarsi dei nuovi arrivi invece di temerli; si può osservare che tutta ‘sta brava gente che reagisce non è brava manco per niente. Si può, sì, ma è inutile e Salvini e i suoi cloni lo hanno capito benissimo. Alla gente non gliene frega niente dei dati oggettivi, perché dopo molto tempo ha finalmente sentito l’odore del sangue, il richiamo dell’istinto. E l’istinto, quando ti senti in difficoltà (anche se sono difficoltà che dipendono da tutt’altri motivi), ti porta a volere solo una cosa: chiuderti nel tuo giro ristretto. Gli altri sono il male, gli altri ci invadono, ci rubano, ci sottraggono le risorse e dunque se ne devono andare, con le buone o con le cattive.

Nessuno è immune da comportamenti e automatismi del genere. Magari esprimiamo il nostro razzismo dirigendolo verso qualcun altro, non esponenti di etnie e nazionalità diverse ma semplicemente persone che hanno abitudini, trascorsi e attitudini diverse dalle nostre. Io devo ammettere di nutrire pregiudizi verso chi non ha un livello di istruzione decente e non se ne preoccupa, il mio è un razzismo intellettuale ma l’aggettivo non lo rende certo più carino. E altri pregiudizi li nutro ancora verso persone cresciute in determinate zone della mia città che ritengo degradate e che do per scontato abbiano un influsso negativo sul livello di civiltà di chi le abita e nelle sue strade impara i primi rudimenti della socialità (un razzismo classista e topografico, in questo caso, e anche qui gli aggettivi non attenuano e non migliorano). Provo pure intolleranza, sospetto e fastidio verso chi professa con dedizione assoluta (che io ritengo eccessiva) il proprio credo confessionale (razzismo religioso).

E forse in fondo sono razzista anch’io in senso classico, perché ogni tanto il dubbio mi striscia dentro, anche se non lo pronuncio ad alta voce: non è che con tutti questi immigrati poi va a finire che le mie condizioni di vita e quelle della mia famiglia peggioreranno? Non è che hanno ragione i pentaleghisti? Magari è vero che se continuiamo ad accoglierli gli altri paesi europei continueranno a fregarsene e noi rimarremo col cerino in mano. Allora può essere una buona cosa che ci siano questi quattro pupazzi razzisti al governo, così gli sbarchi diminuiscono e io sto più tranquillo, continuando a parole a far finta di essere un pacato e aperto cosmopolita di sinistra. Quasi quasi…

Chiunque si guardi dentro con un grano di onestà penso possa riuscire a individuare il proprio razzismo personale. Nessuno è immune dalle approssimazioni e dai comportamenti miopi ed egoistici cui ci induce l’istinto di sopravvivenza, ma nessun istinto e nessuna pseudo razionalizzazione di quell’istinto dovrebbe distoglierci dal ricordare che siamo esseri umani e che questo comporta un dovere morale verso tutti gli altri esseri umani, un dovere che, soprattutto davanti alla tragedia delle migliaia di uomini donne e bambini in balia del mare perché in fuga da violenza, miseria e orrore, dovrebbe imporci di scegliere ciò che è giusto e non ciò che è (o può sembrare) utile a noi e ai nostri vicini.

Per tornare alla storiella dell’inizio, cibarci dei nostri figli, darli in pasto ai loro fratelli, trasformandoli in cannibali, quand’anche ci facesse vivere qualche giorno in più, ci lascerebbe sopravvissuti in un mondo che non vorremmo abitare, mutati in esseri che non saremmo mai voluti diventare.

Con questa moraletta finale un po’ pelosa che a rileggerla, mi rendo conto, fa venire il latte alle ginocchia, non vorrei dare l’impressione di formulare un appello altruistico, ma piuttosto esprimere una preoccupazione concreta, egoistica e personalistica. Quando si rinuncia alla propria umanità, si finiscono con l’accettare cose inaccettabili. Quando si apre il vaso di Pandora degli istinti più bassi e li si fa passare per legittime istanze di un popolo stremato, si mette in moto un meccanismo pericoloso, un meccanismo che non si può poi arrestare a piacimento. Quando la crisi di un’economia (intendo l’economia mondiale) si trascina ormai da più di dieci anni e non pare avere alcuna soluzione che non sia quella di cambiare del tutto sistema economico, ma in un panorama in cui non si vedono all’orizzonte sistemi economici alternativi, l’unica soluzione per riavviare forzatamente il ciclo è la guerra. Qualunque guerra. Se l’economia non funziona e non puoi sostituirla con un’altra, radi tutto al suolo e ricostruisci. Le guerre non mancano mai, ma quelle in corso evidentemente non bastano e sono troppo lontane. È proprio il presagio di questa distruzione che mi spinge a parlare, perché l’unico modo per evitarla ritengo sia mantenere alta la sensibilità. Non è altruismo, il mio, è paura condita da un pizzico di riflessione.

Siamo razzisti e forse questa cosa non si può cambiare. Però attenti, perché come dice quel buon vecchio saggio di Marilyn Manson: “Ognuno è il negro di qualcun altro.”

Guglielmo Pispisa (Kai Zen g)

Gens Italica

A grande richiesta, pubblichiamo anche qui il racconto di Natale di Kaizen g uscito sul blog Resistenze in Cirenaica. Buon 2017.

matrimoni-misti-italia-coloGens Italica

Il tenente Lorusso fissava lo sguardo spiritato nello specchio del bagno. Il rado ciuffo, che nei momenti di forma migliore gli rendeva meno avvilente la calvizie e in quelli di più ardito ottimismo fascista lo convinceva di avere ancora i capelli, stavolta si ergeva arruffato e triste sulla sommità del cranio. Si asciugò entrambe le mani con cura sul cotone rigato della canottiera tesa sul ventre gonfio, poi avvicinò il volto alla propria immagine riflessa. Uno schiocco risuonò come una scudisciata rimbalzando sull’intonaco delle quattro pareti raccolte della stanza. La florida guancia destra gli si tinse dell’impronta scarlatta delle dita.

“Buon Natale minchione.” Continua a leggere

Le parole sono importanti?

dylanChiedersi se dare il nobel a Bob Dylan per la letteratura sia giusto o no, per me equivale a chiedersi se il colore blu sia o meno simpatico. È una domanda inutile e malposta.

E le risposte a questa inutile domanda possono essere tante e anche ovvie. È giusto perché le sue canzoni sono molto più belle di milioni di poesie tradizionali, anche di grandi poeti; perché ha influenzato la società moderna più della maggior parte degli altri autori viventi; perché la letteratura e la poesia nascono insieme alla musica (i bardi, i trovatori, le chansons de geste ecc. ecc.). È sbagliato perché la musica ha un potere di suggestione su cui gli scrittori tradizionali non fanno affidamento; perché non si sentiva il bisogno di avvantaggiare un esponente di una forma d’arte assai più popolare a discapito di una molto meno seguita; perché se diamo il nobel per la letteratura a un cantautore allora vale pure dare quello per la medicina a un massaggiatore, eccetera eccetera eccetera.

Ragazzi, è solo un premio letterario, mica la parola di Dio. Parliamone pure, ma mi pare più interessante chiedersi perché questo sia accaduto. Giusto e ingiusto sono categorie che lascerei stare. Il perché è più interessante e forse anche più inquietante. L’accademia svedese – un’organizzazione fatta di uomini che gestiscono risorse sulla base della loro visione del mondo – premiando Dylan, in fondo ha finalmente ammesso a se stessa e in pubblico che la letteratura tradizionale non basta più, o comunque che è meno rilevante della sua versione potenziata incarnata dal vecchio Bob.

Se in questo tripudio di multidisciplinarietà volessimo usare il linguaggio matematico, potremmo ricorrere a questa formula:

Versi + ritornello + musica + voce roca dell’artista > versi (o prosa) stampati su foglio.

Una letteratura cioè che non sia fatta solo di parole da leggere e immaginare, ma che si avvalga di una rappresentazione performativa a renderla più seducente e facile da fruire e ne favorisca così l’impatto, semplicemente vale di più. Ci si allontana invece dall’idea che un libro classico, pieno di pagine e segni, ossia uno strumento che si usa da soli, fermi, con una concentrazione lineare e ininterrotta per un periodo significativo di tempo, possa davvero trasmettere emozioni, conoscenza e possa migliorare il mondo. Non può più, o può meno di prima, e certo non regge il confronto con altre forme di espressione più dirette.

Si ritorna dunque alle origini dei poemi cantati, della letteratura orale, che aveva successo indiscusso perché nessuno sapeva leggere e scrivere.

Non è che sia giusto o ingiusto. È così e basta.

Radiodead. Ovvero, un amabile progresso chiamato morte

rh southparkNelle recenti settimane sono venuti fuori gli ultimi lavori di varie band a me care: la musica della mia gioventù, avrebbe detto mio padre con espressione vagamente retrò e riferendosi, nel suo caso, agli anni 60. Per quanto mi riguarda parliamo invece degli anni 80 e 90. In ordine sparso infatti sono usciti LP, singoli o EP di Radiohead, Massive Attack, Red Hot Chili Peppers, The Cult e forse qualcos’altro che ora mi sfugge.
In questi giorni ho ascoltato spesso i Radiohead, che secondo me hanno fatto un album di grandissima qualità, e più li ascoltavo più mi chiedevo come mai in molti, anche fra gente assai più titolata di me per parlare, li abbiano criticati definendoli spompati, monotoni, esaurita la voce di Thom Yorke, lontani i tempi della tensione rock di Pablo Honey e The Bends o delle sperimentazioni davvero innovative di OK Computer e Kid A ecc. Noto peraltro che non li passano mai in radio, mentre gli ultimi singoli dei Red Hot o dei Cult, per dire, li sento spessissimo.
Un po’ per inerzia un po’ per cazzeggiante curiosità allora ho finito per riascoltarmi brani e album vecchi di tutti questi miei antichi beniamini, ritrovando sensazioni di un tempo e facendo raffronti. Sono arrivato a una conclusione personale: i Radiohead di oggi infastidiscono molti vecchi fan perché gli ricordano che la morte si avvicina.
Intendiamoci, Thom e soci non sono mai stati degli allegroni, ma nemmeno portano sfiga. Cerco di spiegarmi meglio. Prendiamo uno dei miei pezzi preferiti in assoluto, come Just o anche My Iron Lung. Li adoro e penso mi piaceranno sempre, ma è anche vero che sono brani fortissimamente anni 90, connotati da quel suono scrauso che i gruppi di allora (penso a partire dai Nirvana o giù di lì, ma ripeto non sono un esperto, abbiate pazienza) affermarono sbattendolo in faccia a chi dominava la scena di prima. Poi York e compagni si spostarono, arrivò la maggiore attenzione all’elettronica di Ok Computer e poi le sperimentazioni di Kid A e ancora e ancora. Se oggi mi propinassero un pezzo tipo Just, penso rimarrei perplesso, magari mi piaciucchierebbe pure ma mi verrebbe da chiedergli perché fare una copia di sé stessi quando si possono comodamente riascoltare gli originali su Youtube?
Se prendi Dark Necessities dei Red Hot o Hinterland dei Cult, le loro ultime uscite, la sensazione invece è proprio quella: non li distingui da un pezzo di vent’anni fa e più. Hinterland (che pure mi piace un sacco) potrebbe stare benissimo dentro Love, un album del 1985. Quella dei Red Hot mi fa abbastanza cacare ma il concetto è lo stesso: buttala dentro Californication e non se ne accorge nessuno. Però tutti sono contenti e le radio ringraziano.
Coi Radiohead questo non si può fare. Può non piacerti la direzione che prendono, ma non puoi negare che la loro musica abbia una direzione e che sia in evoluzione continua almeno quanto il look del loro frontman (palpebra a mezz’asta a parte). Loro non stanno fermi, o almeno non fingono di star fermi come altri colleghi coetanei. Questo impone a chi li ascolta di confrontarsi con un cambiamento e di scoprire quanta fatica, anno dopo anno, si faccia a reggere questo confronto, per non parlare dell’impossibilità di provare l’entusiasmo che davanti al cambiamento rende euforici i giovani.
E allora noi vecchi fan, che amavamo così tanto atteggiarci a bohémien senza fame né tisi né un pensiero in testa a metà anni 90, oggi ci accorgiamo che certe vecchie emozioni ci sono negate, perché oggi c’è la crisi e il mutuo e quella tossetta che non mi piace per niente, e tutto è cambiato (ma improvvisamente il cambiamento non ci sembra più così fico). Tutto è cambiato, anche la musica dei fottuti Radiohead. Proviamo un disagio sottile e rimaniamo intrappolati in un meccanismo di negazione che si manifesta con l’arrabbiatura verso questi nostri vecchi idoli che non assomigliano più ai ragazzotti di cui compravamo i dischi, e anzi nemmeno ci provano. Di reazione, preferiamo un bel tuffo nel revival dei gruppi che suonano come le copie sbiadite di quello che furono tanti anni fa.
I Radiohead, insomma, venderanno poco perché i loro migliori fan hanno 40 anni e non si sono ancora abituati all’idea di dover morire.
P.S. I Massive Attack come al solito spaccano il culo.

La Haine

la-haine-saidLa costernazione per gli attentati che in questi giorni frenetici hanno colpito così profondamente Parigi, insanguinando la redazione di un giornale di satira, ossia un limes della libertà di espressione, un luogo simbolico dove l’intera società francese (e europea e occidentale) marca, o pretende di marcare, il discrimine con la parte di mondo alla quale quella libertà manca del tutto o è fortemente limitata, è ovviamente enorme. Ovviamente.
E siamo tutti sconvolti, e siamo tutti indignati e tutti Charlie, ovviamente. Ovviamente.
Ma cosa mi disturba davvero in questa tragedia? Perché continuo a pensarci in maniera ossessiva? Mi ero ripromesso di prendere le distanze, di osservare e tacere per non aggiungere la mia vocina al vaniloquio ridondante su media e social network. Non essere uno dei tanti, l’ennesimo che caca sentenze senza poter vantare una reale competenza in materia. Io sono uno scrittore di romanzi e sono un avvocato. Non sono un esperto di Islam, non sono un giornalista o un analista politico specializzato in questioni mediorientali, non ho il polso della società francese che conosco solo perché ci vado ogni tanto in vacanza. In più, da venti minuti dopo l’inizio di questa storia la girandola di post e commenti su facebook, twitter e compagnia social ha raggiunto livelli insostenibili di parossismo: ci sono gli esperti del complotto per i quali è tutta una montatura, chi ricorda le responsabilità dell’occidente colonialista, chi rinfaccia il fatto che i terroristi di oggi sono armati e foraggiati da quelli che un tempo vennero armati e foraggiati dalla CIA e quindi ora che cazzo vogliamo, chi dice che però pure Israele…, chi che l’Islam moderato non esiste, bollando così di estremismo se non addirittura di terrorismo un miliardo e mezzo di persone, e poi perché i vignettisti sì e i 2000 nigeriani trucidati da Boko Haram no?, e poi è colpa dell’immigrazione incontrollata, del capitalismo, del governo, delle cavallette, di mia nonna.
Poi tre milioni e mezzo di persone scendono in piazza e quella è una cosa bella e forte, non si può negare, ma mi viene rovinata dalle immagini di quel cordone in prima fila di autorità con lo stemmino Je suis Charlie fra cui si annoverano vari noti strangolatori di diritti civili, capi di stato che nei loro paesi imprigionano e ammazzano giornalisti salvo poi difendere la libertà di stampa a parole e a casa degli altri. Tu sei Charlie? Ma come ti permetti anche solo di fingere di pensarlo? Perché la retorica, l’opportunismo e l’ipocrisia devono avere la meglio su tutto, sempre? Continua a leggere

È uscito!

copertina VoiVoi non siete qui

In libreria.

Una parola è poca e due sono troppe

Una cosa per vecchi, una cosa per scrittori

corsa-runningRieccomi acciaccato ma soddisfatto sul divano a strimpellare sulla tastiera dopo avere completato i miei 10 km di corsa settimanale, in questo pigro pomeriggio regalatomi dalla festa della patrona di Messina e dall’assenza delle mie coinquiline preferite in gita al luna park.

Mentre correvo, e nel corso delle successive abluzioni, riflettevo, come spesso mi capita durante la corsa, sulla natura dello sport che mi sono scelto. L’ho scelto per la sua essenzialità, la sua povertà, che rende liberi di praticarlo in ogni momento e luogo, purché si abbia a disposizione un paio di scarpette, certo. Ma l’ho scelto soprattutto perché dopo i primi tentativi, dolorosi e faticosi, ho realizzato che correndo percorsi lunghi non alleni solo il corpo allo sforzo. Più importante è l’allenamento della mente all’idea dello sforzo, all’accettazione del dolore e della fatica per tempi dilatati. Il nemico del fondista, mi pare di capire dalla mia piccola esperienza di dilettante, è la tentazione di mollare, la voce che dentro ti chiede ma chi te lo fa fare, che prova a convincerti che non ce la farai, che non ce la puoi fare. Continua a leggere

Pensieri di nessuno. Russia centrale in pedalò last part: l’egocentrismo degli scrittori e l’effetto cazzo.

Ottavo giorno

imageLa mattina ci rechiamo al monastero di Optina Pustyn, meta di pellegrinaggi spirituali fra le più importanti del paese. Qui sono passati praticamente tutti, anche fra gli scrittori, Dostoevskij, Gogol, Zukovskij, Turgenev e, naturalmente, Tolstoj, che a quanto pare rimase colpito dalla personalità dello starec, padre Amvrosij, che da parte sua trovò lo scrittore “molto orgoglioso” (forse un modo ottocentesco per dire che era un po’ stronzo). Il posto è più grande di Shamordino, con varie chiese e un ampio cimitero. Sostiamo a lungo nella chiesa principale, ancora icone, ancora lapidi, ma l’atmosfera è più turistica e ricca rispetto al monastero di ieri, e dunque il nostro misticismo a comando non scatta con lo stesso impeto.image_1 Compriamo miele dalla mensa dei pellegrini, un plotone di soldati in mimetica verde ascolta le spiegazioni di una guida davanti a una tomba, una coppia di sposi, molto elegante, va probabilmente a ricevere una benedizione, lui sembra Putin giovane, solo un poco più alto e fresco. Andrea e io ci scambiamo deprimenti aneddoti sull’inefficienza degli uffici stampa (ho scoperto che lamentarsi dell’ufficio stampa è un’abitudine ricorrente fra gli scrittori, l’equivalente, immagino, della pubalgia per i calciatori, semplicemente qualcosa di impalpabile a cui addossare la colpa, una specie di nostra egotica malattia professionale).

Dopo pranzo di nuovo in pullman alla volta di Mosca. Ci vorranno ore di fluida guida di Pasha, di discussioni su libri e film che hanno cambiato la vita, di pettegolezzi su giornalisti e ancora lamentazioni a carico di uffici stampa. Andrea mi parla di una cosa che gli ha insegnato un suo amico giornalista, una cosa chiamata “effetto cazzo”, che consiste nel piazzare nelle prime righe di un articolo una tale botta a sorpresa che al lettore vien da esclamare “Cazzo!” e a quel punto non smetterà più di leggere. Una cosa come “Tutti si ricordano bene di Gloria, qui nel reparto maternità dell’ospedale di XXX, perché è alla sua terza gravidanza, ma soprattutto perché ha dodici anni.” I buoni articoli devono avere l’effetto cazzo, e probabilmente anche i buoni libri è bene che se ne dotino, perché ormai nessuno legge più niente a parte i tweet e dunque hai massimo 140 caratteri per agganciare la preda. In effetti non so se mi piaccia l’idea di fare lo scrittore-predatore, ma devo ammettere che ho usato l’effetto cazzo in più di un incipit di miei romanzi. Continua a leggere

Pensieri di nessuno. Russia centrale in pedalò part seven: il Pomeriggio Giovane di Kozelsk

Settimo giorno

imageRipartiamo di buon mattino sotto l’eterna pioggia per visitare Kaluga, che si rivela una bella città, la più ricca fra quelle che abbiamo visto, a parte Mosca. C’è anche qui l’immancabile Lenin di pietra davanti a un casermone municipale, ma l’architettura è generalmente gradevole e ben tenuta. image_2Facciamo quasi shopping in una spaziosa strada pedonale e passeggiamo in un parco mentre Svetlana ci parla dei micidiali ritmi lavorativi che nell’Ottocento gli impiegati dell’amministrazione cittadina erano tenuti a rispettare, ringraziando pure per l’opportunità. image_4Non so bene perché ce ne parli, ormai sono così abituato a mandare giù informazioni turistiche in apparenza sconnesse fra di loro che non mi faccio più domande.

A pranzo, il ristorante è molto elegante; c’è addirittura un orso impagliato all’ingresso, che regge un vassoio con sopra una bambolina e una bottiglia di vodka. I camerieri ti sfilano i piatti da sotto il naso non appena ti dimostri disinteressato al loro contenuto. Continua a leggere