CAPITOLO 3 (di Alberto Noseda)
3 novembre 1854, piano terra della villetta di Capo Saryc
La duchessa accarezzava i tasti del pianoforte come stesse sfiorando seta pura. Era stato difficile scovare un Bsendorfer in quel luogo dimenticato dai piaceri della civiltà, dei ranghi sociali e ormai anche da Dio, ma suonare era il suo modo per distaccarsi dal freddo controllo che aveva sul suo mondo e tutti quanti la circondassero: poteva lasciar vagare libero il pensiero senza preoccuparsi del presente. Il sole al tramonto era ormai scomparso dietro le colline, ma il riflesso della luce era ancora sul lembo di mare visibile dalla vetrata. Non c’era un alito di vento e il mare giocava a essere un’unica distesa di piccole onde ambra e blu scuro.
Lo “studio” che stava suonando le riportava a galla un passato piacevole, in un mondo più semplice. Aveva avuto il piacere di conoscere Ferenc Liszt una decina di anni prima, a un gran ballo a Kiev; era un’estate torrida, con fiori che appassivano a vista d’occhio, e il vino mai del tutto fresco nonostante l’impegno dei servi a mantenerlo nel ghiaccio. Eppure tutto questo caldo non sembrava toccare Ferenc: lontano, freddo, impassibile di fronte al turbinio di aristocrazia russa e non. Si limitava a salutare tutti con un gesto del capo e a scambiare pochi convenevoli, finche’ i loro sguardi non si erano incrociati. Il resto dell’estate era passato in un modo tale che la duchessa non avrebbe mai più pensato a Ferenc come a un uomo freddo e distaccato, tutta la passione della sua musica era lì sempre con lui, pronta a esplodere: violenta ma gentile, forte ma dolce, impetuosa eppure semplice.
Come sua figlia, Beria. sua figlia non figlia. L’andante dello studio ora risuonava più malinconico, mentre lei ricordava quando l’aveva salvata da quel rogo a Istanbul, la notte maledetta, il paziente lavoro di mesi andato ormai in fumo, la casa in fiamme che cadeva a pezzi, il pianto disperato e lei che correva fuori, con questa minuscola creatura tra le braccia; e l’aveva tenuta come sua, sua, SUA. Niente al mondo avrebbe potuto toglierle questa figlia, a lei, duchessa Seminova, che non avrebbe mai potuto concepirne un’altra. Se avesse saputo piangere forse una lacrima sarebbe scesa, il suo carattere e il suo controllo glielo impedirono, ma smise di suonare.
3 novembre 1854, primo piano della villetta di Capo Saryc
Beria pensava al mare Mediterraneo, mentre immersa nella vasca di acqua fumante, ascoltava sua madre suonare; lasciava scorrere i pensieri come gabbiani portati dal vento, lontani e vicini, lontani e vicini. Marina, Karim, Stephen*, Fedor. Il potere del controllo che esercitava su tutti loro, questo sì che era qualcosa per cui vivere. Il potere era eccitante, manipolare quelle persone come pupazzi legati alle sue mani con più fili. “Non si può controllare un burattino con un solo filo”. Chi l’aveva detto? Non ricordava, ma non era importante. Il pensiero del potere la stava eccitando fisicamente e il profumo dell’essenza di sandalo che aveva sciolto nell’acqua non faceva niente per raffreddare il suo calore interno. Cosa avrebbe fatto Fedor per consegnare quella missiva? Non avrebbe osato esporsi in prima persona: troppo debole, avrebbe usato un tramite, una persona disposta a tutto. il giornalista. Era ovvio avrebbe usato lui. L’inglese sarebbe stato ben contento di avere informazioni che nessun altro poteva ottenere, mettersi in contatto con quella gente, poter scrivere un articolo come nessun altro: si sarebbe buttato a capofitto. Lei usava Fedor, che usava Russel. il quale non sarebbe mai stato in serio pericolo fino a quando avesse tenuto la bocca chiusa, e poi. be’. Non era certo il primo giornalista che rimaneva vittima in zona di guerra. Beria si concesse un sorriso cattivo, potere di vita e di morte. Si sentiva così eccitata. Inalando a fondo il profumo di sandalo si sfiorò; ormai aveva superato da tempo gli obblighi morali imposti dalla società e dalla sua cultura. Si era costruita la sua morale e nessuno poteva scalfirla, aveva accettato questo lavoro con i suoi rischi, i suoi ordini, i suoi piaceri; doveva portare a compimento gli ordini, sacrificando chi era necessario. Potere di morte. Si mosse nell’acqua come un polipo attorno alla preda, movimenti convulsi fino alla stoccata finale.
5 novembre 1854, un vicolo dietro la moschea di Simferopoli
Quello che devo fare, pensa affrettandosi. Dopo l’aquila, secondo vicolo a sinistra. Osservare tutto, ma non fermarsi troppo in un punto. Solo un goccio, un solo sorso di vodka prima di continuare. Vicolo a sinistra, nessuno per la strada, terzo portoncino a destra. Respiro profondo. La vernice verde è ormai scrostata, il battente a forma di pugno è macchiato da decenni di inutilizzo. Curioso, pensa, è un pugno senza pollice, ambidestro. Due colpi, pausa, due colpi. Respiro profondo. Un vecchio viene ad aprire e chiede qualcosa in turco, o forse arabo. Prova a sbirciare oltre, ma vede solo l’inizio di un corridoio bianco. Il vecchio chiede ancora la stessa cosa, lui sa che non deve rispondere. Fa il gesto con le dita che ha detto Fedor. Il vecchio scopre una fila di denti gialli e sputa ai suoi piedi. William si volta a destra e sinistra, non vede nessuno. Consegna la busta al vecchio con la mano sinistra. Il portone si chiude con un colpo, e il battente risuona cupo nel vicolo.
Finito. È tutto finito, però non ha scoperto niente di rilevante. Deve muoversi da lì ora. Torna verso la moschea, la tensione scende di botto, beve un altro sorso e arriva nella piazza del mercatino. Misere cose in vendita, qualche scarso ortaggio, un banchetto di stoffe lise, frutta troppo acerba o troppo matura qua e là. È tutto finito per ora, ma la prossima volta deve scoprire di più , ha il luogo, il modo di contatto. Deve scrivere tutto, tutti i particolari, prima che si dimentichi qualcosa.
Dio… che occasione!
(*) Lord Cardigan