Ottavo giorno
La mattina ci rechiamo al monastero di Optina Pustyn, meta di pellegrinaggi spirituali fra le più importanti del paese. Qui sono passati praticamente tutti, anche fra gli scrittori, Dostoevskij, Gogol, Zukovskij, Turgenev e, naturalmente, Tolstoj, che a quanto pare rimase colpito dalla personalità dello starec, padre Amvrosij, che da parte sua trovò lo scrittore “molto orgoglioso” (forse un modo ottocentesco per dire che era un po’ stronzo). Il posto è più grande di Shamordino, con varie chiese e un ampio cimitero. Sostiamo a lungo nella chiesa principale, ancora icone, ancora lapidi, ma l’atmosfera è più turistica e ricca rispetto al monastero di ieri, e dunque il nostro misticismo a comando non scatta con lo stesso impeto.
Compriamo miele dalla mensa dei pellegrini, un plotone di soldati in mimetica verde ascolta le spiegazioni di una guida davanti a una tomba, una coppia di sposi, molto elegante, va probabilmente a ricevere una benedizione, lui sembra Putin giovane, solo un poco più alto e fresco. Andrea e io ci scambiamo deprimenti aneddoti sull’inefficienza degli uffici stampa (ho scoperto che lamentarsi dell’ufficio stampa è un’abitudine ricorrente fra gli scrittori, l’equivalente, immagino, della pubalgia per i calciatori, semplicemente qualcosa di impalpabile a cui addossare la colpa, una specie di nostra egotica malattia professionale).
Dopo pranzo di nuovo in pullman alla volta di Mosca. Ci vorranno ore di fluida guida di Pasha, di discussioni su libri e film che hanno cambiato la vita, di pettegolezzi su giornalisti e ancora lamentazioni a carico di uffici stampa. Andrea mi parla di una cosa che gli ha insegnato un suo amico giornalista, una cosa chiamata “effetto cazzo”, che consiste nel piazzare nelle prime righe di un articolo una tale botta a sorpresa che al lettore vien da esclamare “Cazzo!” e a quel punto non smetterà più di leggere. Una cosa come “Tutti si ricordano bene di Gloria, qui nel reparto maternità dell’ospedale di XXX, perché è alla sua terza gravidanza, ma soprattutto perché ha dodici anni.” I buoni articoli devono avere l’effetto cazzo, e probabilmente anche i buoni libri è bene che se ne dotino, perché ormai nessuno legge più niente a parte i tweet e dunque hai massimo 140 caratteri per agganciare la preda. In effetti non so se mi piaccia l’idea di fare lo scrittore-predatore, ma devo ammettere che ho usato l’effetto cazzo in più di un incipit di miei romanzi.
Arriviamo infine, sfatti e senza nemmeno essere passati dall’albergo, alla Biblioteca della letteratura straniera, dove si terrà l’incontro che chiude il viaggio, quello con gli scrittori moscoviti. Che si rivela più surreale di quello con gli scrittori di Orel. Ci sono, fra gli altri, Evgenij Anatolevijc Popov, Olga Slavnikova e un ex ministro della cultura che ci informa di aver vinto in Italia il premio Oliva d’oro, che nessuno di noi conosce.
Quello a cui siamo preparati: un meeting in cui scrittori russi che non hanno letto una riga delle nostre cose ci fanno domande vaghe sulla letteratura italiana. Siamo preparati, con le nostre supercazzole affilate da anni di presentazioni, interviste, tavole rotonde sul nulla. Siamo pure preparati a rispondere a domande sulla Russia: che ne pensate, quali impressioni. Preparati a condividere la nostra autorevole opinione, come se uno potesse davvero farsi un’idea meritevole di nota di un luogo immenso e vario come questo dopo una sola settimana di giri e senza conoscere la lingua.
Quello a cui non siamo preparati: che i nostri ospiti si aspettino che siamo noi a fare domande a loro. Sistemati al quarto piano di questo edificio anni Settanta, noi di fronte a loro, seduti a un enorme tavolo componibile ovale da conferenza stampa, che fa il giro di tutta la stanza, le parole dell’interprete traducono proprio una cosa del genere: ci ringraziano, sperano che il nostro soggiorno sia stato piacevole e sono a nostra disposizione per rispondere a tutte le domande che vorremo fargli. Ci guardiamo di sottecchi con lieve imbarazzo. Io mi sento come quando squilla il telefono e la persona all’altro capo del filo chiede “Chi parla?” Cazzo, hai chiamato tu, dimmelo tu chi sei, perché lo chiedi a me? Il clima è cordiale e sereno, come sempre, e i nostri amici professano a gran voce il loro amore per l’Italia e la cultura italiana, ma evidentemente desiderano assai di più parlarci di loro stessi. È come se ci tenessero a spiegarci quello che abbiamo visto, a dare la loro versione. Spiccichiamo giusto un paio di domandine fiacche e finalmente la coordinatrice dell’incontro, con la scusa dell’ora tarda, suggerisce di spostare la conversazione davanti al buffet, la qual cosa pare a tutti una gran bell’idea. La conversazione risulterà più facile e rilassata, anche se altrettanto sterile.
Dopo cena e dopo un velocissimo passaggio in albergo, con una doccia fatta in novanta secondi, le nostre stoiche interpreti ci accompagnano nell’ultimo giro di Mosca by night. Niente locali né donnine né alcolici, però, non ne avremmo la forza. Pasha ci ha già salutati per sempre, con una abbastanza indifferente stretta della sua mano spessa, ed è sparito nella notte e nel fumo azzurrino della sua sigaretta e dello scappamento del suo pullman, per cui viaggiamo in metropolitana, all’una di notte, fino alla meravigliosa stazione Majakovskaja in stile art deco,
e poi passeggiamo fino alla Piazza Rossa. La Majakovskaja è monumentale, densa di statue, bassorilievi, mosaici, stalinista fino al midollo. Compriamo caviale in scatola in un supermercato aperto tutta la notte dentro un incredibile palazzo liberty la cui volta altissima è retta da colonne istoriate.
La Piazza Rossa è molto più suggestiva a quest’ora, bagnata di pioggia e dalle luci delle mura del Cremlino e della cattedrale di San Basilio.
Che questa città non abbia carenze energetiche è cosa evidente. Attraversiamo la quiete costosa delle strade pedonali
dietro la piazza per raggiungere un taxi. Svetlana contratta il prezzo per noi e torniamo in albergo.
Fra quattro ore saremo di nuovo in piedi per prendere un aereo, e poi a casa. Al duty free dell’aeroporto indico ad Andrea una cassa chiusa, con su il cartello Kacca closed, mi pare degno di un’ultima fotografia, a sancire la fine.
Per fare un rapido bilancio, posso dire che 1. non abbiamo visto la mummia di Lenin; 2. non abbiamo bevuto tè da un samovar in una iurta odorosa di pelli di capra; 3. non siamo stati spiati dal KGB, almeno non credo, anche perché il KGB non esiste più, ormai si chiama FSB, e non penso gliene importi niente di noi (i tempi della dissidenza intellettuale sono finiti perché gli intellettuali, qui come da noi, sono irrilevanti e i dirigenti di partito degli intellettuali se ne fregano: ignorarli basta e avanza come strategia di conservazione); 4. Mosca è più luminosa di notte che di giorno; 5. le guide delle case museo amano di amore incondizionato e adolescenziale i padroni di casa di cui cantano le gesta; 6. i russi adorano cantare in compagnia anche più degli italiani; 7. Ci sono molte Russie, quasi tutte povere, quasi tutte interessanti; 8. gli spettacoli folcloristici sono uguali dappertutto; 9. gli scrittori desiderano parlare sempre e solo di se stessi, in Russia, in Italia, ovunque.
Di quel che ho visto e vissuto, mentre aspetto il mio volo, mi torna in mente Pasha, chissà perché. Lo vedo in un bar, a fumare assorto davanti al suo bicchiere. E quando gli amici chiedono “E allora, che te n’è sembrato degli italiani?”, risponde “Mah, che dirti, compare. Quelli vanno, vengono, sopra, sotto, salgono, scendono e manco sanno dove sono. E poi fotografano i cartelli stradali…”