A Christmas Carol

PREMESSA

Ho cercato, in questi piccoli racconti di spiriti, di evocare il fantasma di un’Idea che non metta i miei lettori di cattivo umore verso se stessi, o gli altri, o nei confronti del periodo festivo, o contro di me. Che possa infestare piacevolmente le loro case senza che alcuno desideri scacciarlo.

Il loro fedele amico e servitore,

Dicembre 2010

K.Z.

Futuro era morto. Tanto per cominciare. Su questo non c’è alcun dubbio. Il certificato delle esequie era stato firmato dal presidente, dal banchiere, dall’industriale e da un cardinale. L’aveva firmato anche la Camorra. E in Borsa il nome Camorra godeva gran credito, qualsiasi cosa decidesse di fare.
Il vecchio Futuro era morto come un chiodo piantato in una porta.
Attenzione! Non intendo dire di sapere, per conoscenza personale, che cosa mai ci sia di particolarmente morto in un chiodo piantato in una porta. Per quanto mi riguarda, sarei stato propenso a credere che sia un chiodo piantato in una bara l’articolo di ferramenta più morto sul mercato. Ma la saggezza dei nostri antenati sta nella similitudine e le mie mani profane non debbono turbarla, o sarebbe la rovina del paese. Mi permetterete, dunque, di ripetere con enfasi che Futuro era morto come un chiodo piantato in una porta.

***

“Si dimetterà, ora che c’è una mozione di sfiducia sottoscritta dal 46% dei soci?” Geronimo sposta con un gesto brusco della mano il microfono che la giornalista gli brandisce insistente sotto il naso e si dirige al parcheggio della sede dell’ACI, dalla quale è appena uscito. La giornalista gli tiene dietro, continuando a provocare: “Quali competenze può vantare per giustificare l’incarico che ricopre?”
Per tutta risposta accelera il passo e si infila nel tunnel in discesa che porta al sotterraneo. Da tre anni a questa parte, da quando Berlusconi è entrato in coma irreversibile, tenuto in vita solo dalle macchine, suo padre, come tutto il partito, è in forte difficoltà, e i giornalisti si sono fatti più aggressivi, quelle iene. Lo tormentano, gli chiedono conto di ogni piccolezza. Dettagli che una volta passavano inosservati o al più erano sottolineati solo da quegli sfigati di Report, ora finiscono in prima pagina pure sulla stampa di destra. Ipocriti figli di puttana. Quali competenze… e quali competenze ci devono volere per far parte del consiglio direttivo dell’ACI? Gliel’ha già detto, a quelli, che ha sempre avuto una passione per i motori, che altro vogliono, la laurea in ingegneria meccanica? Ha pure fatto tardi e deve ancora comprare il regalo di Natale per Ginevra. Quella ormai non si accontenta più di quattro moine e un baciamano, è arrivato il momento di passare in gioielleria.
Il sotterraneo puzza di umido e olio di motore. È deserto. La Maserati squilla due volte al richiamo del telecomando. Geronimo apre la portiera, ma sente un fruscio alla sua destra. Si volta di scatto. Un’ombra si muove dietro uno dei pilastri nudi dell’edificio, gli sembra di udire una risata lontana, metallica. Ma forse no. Chiude la portiera e fa per mettere in moto quando nota un biglietto sul cruscotto. “Guarda su” c’è scritto, con una freccia a indicare la direzione. Geronimo alza gli occhi oltre il parabrezza e caccia un urlo. Un pupazzo con un ciuffo di capelli neri arruffati e grottesche sopracciglia foltissime è impiccato alla trave che incombe sulla sua auto. Gli assomiglia. Ancora un movimento, a destra, qualcuno vestito di rosso si sta allontanando. Poi un colpo secco al finestrino lato guida. Geronimo ha un sussulto e urla ancora, ma è solo quella stronza della giornalista che non demorde. Mette in moto e sgasa su per la rampa d’uscita. Nello specchietto retrovisore appare il faro di una moto.
Guida a strappi e singulti, smanettando frustrato col cambio fra prima e seconda, fino a che non imbocca la circonvallazione. Dalla radio una voce petulante salmodia un servizio strappalacrime sui giovani precari. Sono i nostri figli, il futuro del paese, il nostro futuro. E noi cosa facciamo per loro? Meglio spegnere ‘sta lagna. In principio il traffico è ancora denso, poi, man mano che il bolide prosegue verso nord, si dirada fino quasi a esaurirsi. Potrebbe rilassarsi, se non fosse per le due macchine che già da qualche chilometro lo tallonano. Ancora giornalisti. La Fiat station wagon è di certo un’auto aziendale RAI e la Wolksvagen vallo a sapere. Ma adesso la strada è sgombra e glielo fa lui il servizio, a quei pezzenti. Pigia sul pedale, terza, quarta, curva a destra al limite, terza, quarta, quinta, sesta. Gli alberi ai lati della carreggiata sfrecciano in una macchia indistinta. Le due auto sono ormai distanziate e il tachimetro della Maserati segna due e venti. Se ne andassero affanculo, loro e quelle macchinette da impiegati del catasto. Scala di nuovo in terza e affronta la teoria di tornanti che portano fuori città. Ma ormai ci ha preso gusto, quarta, quinta, curva lunga a sinistra in pieno, il motore sale di giri, freme, gli innesti delle marce sono precisi, il sudore della tensione scivola dalla fronte fino alle sopracciglia. Pensa ancora per un attimo al pupazzo, quel patetico simulacro, ha un moto di stizza che sfoga sul cambio, affonda il pedale.
Da una stradina laterale schizza una moto, il centauro è vestito di rosso, una specie di spolverino che svolazza al vento della sera. Gli taglia la strada. Geronimo sterza a sinistra, scala in terza, ma il retrotreno slitta, porcamadoska lo sapeva che doveva prendere la trazione integrale. L’albero squarcia in due il cofano e l’airbag gli esplode in faccia in una cascata di cristalli.
Si risveglia confuso, immobilizzato dallo sterzo piegato. Una figura scarlatta sopra di lui gli butta acqua in faccia, gli cola sui capelli, gli finisce in bocca. Ma brucia gli occhi e la gola, non è acqua. È… è…
“Salve Geronimo,” dice la voce dell’ombra in rosso. “Io sono Tiny Tim, il fantasma dei Natali futuri. Ho un regalo per te, la mia tessera ACI Gold.” Geronimo sente lo sfrigolio dello zolfo di un fiammifero. Un cartoncino plastificato divorato da una fiamma plana nell’abitacolo. Il fuoco è l’ultima cosa che vede.

***

I responsabili del casting si sono barricati nella discoteca alla periferia di Milano che ospita l’evento. La notizia è arrivata all’improvviso, li ha colti impreparati, l’assistente di produzione più giovane se l’è fatta scappare e ora la gente in coda non accenna ad andarsene. Restano lì immobili, senza dire nulla sotto la pioggerella sottile e fastidiosa. Non sanno cosa fare, forse è il caso di chiamare la polizia. Sono nervosi, fumano e bevono caffé scadente alla luce degli adobbi natalizi. Anche il proprietario del locale è d’accordo. Prima che si scaldino gli animi è meglio chiedere aiuto. Stanno per comporre il 113 quando da fuori un grido si alza sopra il brusio cresciente.
“Se c’era Taricone vi spaccava la faccia vi spaccava.” La bionda ha una voce roca, sensuale, se non fosse per il dissimulato accento ciociaro che le rimane appiccicato all’angolo della bocca.
“Altro che Taricone, mò la faccia ve la spacchiamo noi.” Il palestrato si volta verso la coda di gente, saranno duecento, e solleva le braccia tatuate di tribali. Alcuni rispondono al gesto con un saluto romano, altri alzano semplicemente le mani gorgheggiando un coro di sì. Una figura in rosso con un cappello a falde larghe calcato sugli occhi mormora qualcosa nelle orecchie del suo vicino, un triestino sulla quarantina con occhiali dalla montatura a forma di stella. L’uomo, scavalcate le barriere provvisorie, esce dalla fila e con le mani a megafono urla nella direzione del palestrato. “Va là mona cosa vustu far? Nemo a Cologno a tirarghe le bae al boss. Nemo.” La rossa accanto a lui annuisce, la mora dietro di lei non ha capito nulla ma ci sta e così nel giro di qualche minuto il passaparola è completo. Duecento aspiranti incazzati neri per la cancellazione repentina del Grande Fratello dal palinsesto hanno provato all’unisono quello strano sentimento umano che corrisponde al nome di empatia. Condividono una delusione, un sogno infranto e una rabbia feroce, che monta e rimonta a ogni dialogo. L’occasione di essere qualcuno è svanita in un attimo e per sempre. Per sempre.
La ciociara trattiene l’inflessione, è al limite linguistico delle sue possibilità. “Sì ma come? E se non è a Cologno che si fa? Andiamo ad Arcore o alla clinica dove sta il papà in coma?”
I miracoli sono sempre piccole cose, tranne quello del Mar Rosso certo, ma quelli erano altri tempi e la folla da spostare era più consistente, ora basta un autobus. E infatti dal parcheggio della disco, ne esce uno di quelli all-comfort, con aria condizionata, bagno e schermi tv nello schienale del sedile. A guidarlo, l’uomo in rosso.
Il mezzo si ferma accanto alla fila, sotto la pioggia si leva un urlo bestiale collettivo. Quando i duecento salgono a bordo, la tv sta trasmettendo la replica della prima edizione del GF, la radio copre l’audio con la Cavalcata delle valchirie a tutto volume. L’autista sembra sicuro di sé e della meta, guida il torpedone in tangenziale come una furia, direzione: Cologno Monzese. Nessuno l’ha scorto in volto, nessuno sembra badare a lui e quando inchioda il mezzo davanti ai cancelli di Mediaset, la rabbia è cresciuta così tanto da spingere i passeggeri a svellere i sedili in cerca di un’arma improvvisata. Scendono e sciamano come un’orda barbarica nel piazzale desolato, l’uomo in rosso apre il vano bagagli rivelando una pila di manici di piccone. Gli aspiranti ospiti della Casa si approvvigionano e si dirigono verso l’entrata. Gli addetti alla sicurezza chiedono istruzioni, è tutto un frusciare di walkie talkie, di parole metalliche biascicate nervose da un capo all’altro della struttura. La folla è un solo grido: Piersilvio, fuori! fuori!
Il secondo miracolo. Circondato da due bodyguard, sotto un ombrello nero con il logo del biscione in bianco, l’amministratore di RTI fa la sua comparsa. Il capo della sicurezza lo avvicina, ma Piersilvio lo liquida con un sorriso che ricorda quello paterno e una pacca sulla spalla. Gli impiegati si affacciano alle finestre.
Piersilvio lascia i gorilla sotto la pioggia qualche passo indietro e si avvicina alla cancellata. La folla ammutolisce, pigiata contro le inferriate. Piersilvio fa un cenno della mano, un gesto a metà tra una benedizione papale e un saluto amichevole, sportivo. È sicuro di sé, non è mai stato così sicuro di sé. Può sentire il gusto del potere sulla punta della lingua. Gli aspiranti ospiti del Grande Fratello abbassano i bastoni. Una ragazza ossigenata alla Marilyn si commuove e non trattiene le lacrime. Qualcuno tende una mano oltre le sbarre, qualcun altro lo imita. Il momento è intenso. Le bodyguard si avvicinano, il capo della sicurezza e i suoi ragazzi serrano i ranghi, sono nervosi, ma Piersilvio sente un fuoco dentro, fa un altro passo. Riescono quasi a toccarlo. Ancora un passo. Stringe una mano, poi si sente strattonare e quando sbatte il volto contro la cancellata, sente un dolore feroce alle labbra e al naso. Il sangue cola lungo i baffi e il pizzetto. La stretta dell’uomo in rosso è granitica, altre braccia lo afferrano, la folla esplode, la sicurezza cerca di tirarlo indietro, ma alcuni aspiranti lo hanno afferrato alle caviglie e lo schiacciano contro il cancello. Qualcuno lo bastona ferocemente, infilando le braccia tra le sbarre. Da sotto il cappellaccio rosso, la voce giunge appena all’orecchio di Piersilvio. “Io sono Tiny Tim, il fantasma dei Natali futuri. Ho un regalo per te.”
L’ultima cosa che sente è un dolore indicibile, l’ultima cosa che vede è un manico di piccone spezzato che gli spunta dallo stomaco come l’albero di una nave.

***

Renzo è nudo davanti allo specchio che gli restituisce l’immagine di un torace stretto con i pettorali definiti dalla palestra, il pene flaccido mezzo inghiottito dal pelo pubico. Prende la forbice e comincia a tagliarsi i ricci crespi, così alla brutta, grossolanamente. Prima davanti, poi i lati, infine dietro. Con la sinistra passa le dita fra i capelli e tira fino a far sollevare la cute, con la destra sforbicia, fino a che il cranio non rimane nudo, chiazzato qua e là di ombre di peluria superstite.
I bastardi non aspettavano altro. Con suo padre ormai fuori uso hanno cominciato a farsi i comodi loro, sfacciati e allegri come puttane a una festa. In lista lo hanno schiaffato al quarto posto, merde che non sono altri, in questo modo non salirà mai. La sua carriera politica finisce qui. Hai voglia a sprecarsi in paroloni di stima e nostalgia per suo papà; quando si è trattato di metterglielo su per dove non si dice non si è tirato indietro nessuno. Magari giusto un po’ a testa bassa, ma tutti in fila, alla faccia del Senatur. Se li ricorda ancora, nella stessa fila, con lo stesso ordine, ma dietro suo papà a Pontida oppure sulle rive del Po, con lo sguardo fisso sull’ampolla e le espressioni avide. Viscidi
I peli sul petto cedono al rasoio come lacrime a una spugna; del resto son pochi. Quelli in mezzo alle gambe è tutta un’altra storia, sono duri, ispidi, non vengon via. La lama affonda, ma strappa più che tagliare. Piccole screziature vermiglie affiorano sulla pelle bianchissima del ventre ormai glabro. Mettere i calzoni sarebbe un problema, adesso, ma ormai Renzo non ci pensa più.
Quella troietta di Clarissa non lo chiama da due settimane, non risponde al telefono, ai messaggi. La mail non ce l’ha perché dice che lei i computer non li capisce, ma tanto non risponderebbe manco a quella. L’antifona Renzo l’ha capita, le gambe si aprono solo quando conviene e adesso lui non è più un cavallo vincente, è zoppo. Clarissa era una gran figa, ma in fondo questa è la cosa che lo ha ferito di meno, in fondo lo sapeva di che pasta era fatta, mica ci voleva una laurea in psicologia.
La vasca ora è piena e calda come una vena di sangue. Renzo si immerge, ignorando il pizzicore della pelle rasata di fresco, si abbandona con la testa sul bordo per qualche minuto, la posizione è confortevole. Si ricorda che da piccolo suo padre cercava di lavargli i capelli proprio in quella vasca, ma lui faceva resistenza, chissà perché, e giù madonne rauche. Sorride al pensiero, mentre scarta la lametta e si incide in profondità all’interno delle cosce, cercando l’arteria. Male cane, l’ha trovata.
La raccomandata è arrivata stamattina, busta di carta di buona grammatura, orlata di nero come fosse listata a lutto. Università degli Studi, carta intestata del rettore, tono formale: Egregio signore, con la presente Le comunichiamo la decisione assunta dal senato accademico di revocarLe la laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione, a suo tempo riconosciutaLe dalla precedente dirigenza. Ciò a motivo del fatto che Ella è del tutto sprovvisto dei sia pur minimi requisiti di competenza ed esperienza che avrebbero dovuto essere tenuti in conto per l’assegnazione del sopra richiamato titolo. Riteniamo infatti che la precedente decisione, oggi con la presente comunicazione revocata, sia stata consigliata, imprudentemente, da estemporanee valutazioni di convenienza politica che nulla hanno da spartire con la serenità di un giudizio accademico che ha da essere scevro da qualsivoglia speculazione extrascientifica. Si ritiene, invero, che l’attribuzione alla sua persona, per la quale nutriamo comunque sincera umana simpatia, di un titolo scientifico, sia pur onorifico, vada interpretato come l’ennesima evidenza della incontrovertibile decadenza e perdita di autorevolezza della comunità scientifica italiana, a cui intendiamo opporre la nostra fiera e ferma resistenza. Distinti saluti e buon Natale. Il Rettore Timothy Cratchit. L’ha letta tre volte, poi ha capito e ha pianto. Cazzo, la laurea no.
Si apre anche i polsi con due lunghe fenditure e abbandona le braccia in acqua. Si rilassa, in fondo è giusto, il Trota muore in acqua, ha una sua logica. Poi ha un fremito, si riscuote e zompa fuori dalla vasca, attraversa il tinello, pesta due pastori del presepe spargendo una scia rossa sulle piastrelle di gres porcellanato. Fruga nel cassetto del comodino, in camera da letto, prende la scatola di pelle e ritorna in bagno. Si immerge nuovamente e da dentro l’acqua apre la scatola, poggiata sul bordo della vasca. La Smith & Wesson è carica e ben oliata, dà un bel senso di sicurezza. Si infila la canna in bocca e si riappoggia alla ceramica.
Fammi stare tranquillo, va’. Tira il grilletto.

***

In una terra senza spazio e senza tempo, l’ombra vestita di rosso, altrimenti nota come Timothy Cratchit o Tiny Tim, il fantasma dei Natali futuri, siede con un ukulele in grembo su una roccia a picco su uno specchio lacustre. Tira ciottoli sulla superficie dell’acqua che non viene alterata da cerchi concentrici, ma inghiotte i sassi e resta ferma. Alle sue spalle compare la figura di un uomo anziano e stempiato, con la testa circonfusa di luce, conosciuto anche come il fantasma dei Natali passati. Ha un’espressione bonaria e le guance, ben illuminate, rivelano un rossore alcolico. Dev’essere un tipo simpatico. Si schiarisce la voce per annunciare la sua presenza, ma Tiny Tim lo ha già notato e si gira scrutandolo serio.
“Cos’è quella faccia, fratello? È Natale!”
“Lo so, ho fatto il solito giro di notifiche.”
“Dove?”
“Quest’anno in Italia.”
“A chi, politici?
Tiny Tim tira fuori di tasca una lista spiegazzata: “Sì, mi pare, ma anche qualche industriale e un paio di banchieri. Tieni, guarda l’elenco.”
Il fantasma dal volto rubizzo si sistema un paio di occhiali a pince-nez sul naso e compita: “Silvio Berlusconi… Ignazio La Russa… Umberto Bossi… Sergio Marchionne… Pierluigi Bersani…” Poi smette. “Si sono cagati addosso come al solito, no?”
Tiny Tim scrolla le spalle: “Dubito. Quanti anni è che facciamo le notifiche?”
“Più di centocinquanta.”
“Infatti. All’inizio funzionava, ricordi? I bastardi si rimettevano subito in riga, ma ormai è sempre più raro. E più grossi sono e peggio è. Poi gli italiani non ne parliamo. Sono i peggiori, con gli americani. Guarda qua…”
Il fantasma dei Natali futuri prende un calepino e comincia a sfogliare. “Ecco: Gianni Agnelli, Umberto Agnelli, Joseph P. Kennedy, John F. Kennedy, Aristotele Onassis… Tutti avvisati regolarmente. Ti pare che hanno fatto una piega? Macché! Abbiamo dovuto procedere, mettere in pratica l’avviso, passare dai sogni ai fatti. Questi ormai se ne fottono pure dei figli. Dio li maledica tutti!”
Il fantasma luminoso e rubizzo alza una mano: “Posso una domanda?”
“Dimmi pure.”
“Chi cacchio è Bersani?”

***

Stamattina alcuni uomini potenti si sono svegliati in una pozza di sudore. Brutti sogni, incubi orrendi hanno lasciato loro addosso un senso di incombente tragedia. Hanno sognato la morte dei loro figli, la fine del loro futuro. Per fortuna è solo un sogno, si dicono, mentre sbocconcellano la colazione sovrappensiero.
Scrollano le spalle. Prima delle otto del mattino quella brutta sensazione è già lontana e loro possono dedicarsi alle consuete faccende, nelle consuete maniere.

14 thoughts on “A Christmas Carol

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  2. No, non mi pare affatto banale e non è solo un modo per elevare l’indignazione. E’ un modo per far circolare una voce, farla ascoltare a 100 persone, che magari ci riflettono la prossima volta che mettono una X su un foglio di carta.
    100 persone che forse leggono un libro all’anno, che vanno a votare decidendo con lo stesso spirito con cui si prende un tè al posto di un caffè. 100 persone che quando votano valgono però quanto noi.
    Ognuno hai i proprio strumenti. Blogger, scrittori, o giornalisti.

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  3. Ma banale un cazzo! E’ agghiacciante, sembra Charles Dickens riscritto da Alan Moore. KZ, spiazzanti as usual (come si dice a Milano per non far capire a Renzo di cosa si parla…)!

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  4. Indignazione? Non è questione di elevare la propria indignazione. Si tratta di rabbia, di odio, di rancore. Roma e le altre città lo hanno dimostrato. Io non mi indigno perché non ho futuro e non mi indigno perché nella scuola di mia figlia va tutto a rotoli e non elevo la mia indignazione perché quando sarà grande si troverà un paese di macerie morali e materiali. No, io non mi indigno, sono incazzato nero, sono feroce, sono un cane sciolto affetto da rabbia. E questa volta non sono solo. Devono avere paura. Paura di uscire, di farsi vedere, di vivere.

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  5. @fasanotti: banale è dire “ah no, così no!” e non proporre altro. In sostanza ti sei esercitato nello sport nazionale: ti è venuto così, spontaneo!
    @kaizeng: compliments! quanto al prendere come complimento un cazzo nel culo io mi fermo ai complimenti soliti. Convenzionali ma molto meno dolorosi (e/o piacevoli, dipende dal ricevente)
    :))
    Grande.

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